Senza difesa davanti a una accusa infamante, in quello che i media locali considerano come il più efferato caso di blasfemia che coinvolge un esponente delle minoranze. Il cristiano Nadeem Samson si è presentato inutilmente davanti ai giudici di Lahore l’ 8 maggio. L’ udienza è stata sospesa e il processo rinviato fino a quando non gli sarà possibile avere un collegio di difesa. Nel frattempo, però, resta sotto custodia in una località ignota, a rischio di ritorsioni da parte degli islamisti. Contro di lui, arrestato il 24 novembre dello scorso anno, sono stati registrati reati in base a gran numero di articoli del Codice penale. L’ imputazione più rilevante riguarda, però, l’ oltraggio all’ islam, disciplinato dalla cosiddetta legge anti-blasfemia. Una norma particolarmente controversa, perché spesso impiegata come strumento di persecuzione nei confronti delle minoranze. Per tale ragione, sulla misura è in cor- so un intenso dibattito pubblico. Autorità, islamisti moderati e minoranze sarebbero favorevoli – più o meno apertamente – a una revisione legge mentre gli estremisti musulmani che negano la possibilità di ogni modifica, nonostante i provvedimenti siano stati inseriti nell’ ordinamento penale sotto il regime del generale-dittatore Muhammed Zia ul-Haq alla metà degli anni Ottanta. Secondo le accuse, Nadeem avrebbe inviato postato su Facebook messaggi ingiuriosi verso l’ islam, utilizzando una scheda telefonica appositamente acquistata per essere meno individuabile. Per fonti cristiane locali, non solo la polizia avrebbe accolto acriticamente questa tesi, ma avrebbe incendiato la sua casa dopo l’ arresto e posto sulla lista dei ricercati il fratello mentre altri familiari sono stati costretti alla clandestinità per salvare la vita. All’ origine della vicenda, come molto spesso accade, non ci sarebbe, però, la questione religiosa, bensì interessi economici. Cioè una disputa su un proprietà dello zio di cui un individuo di fede musulmana aveva illegalmente ottenuto la concessione. Nadeem Samson aveva proposto di pagare il necessario per la restituzione, ma durante le trattative il musulmano Abdul Haq era riuscito a ottenere copia della carta d’ identità del cristiano e con questa acquistato a suo nome la scheda impiegata per diffondere i messaggi proibiti. Una storia complessa che per la sua rilevanza mediatica ha finora impedito a Nadeem di trovare un legale disposto a difenderlo, nel timore di ritorsioni da parte dei gruppi fondamentalisti. Rischi personali, ressioni e necessità che stanno spingendo famiglie cristiane a accettare il “prezzo di sangue” (diyat) previsto dalla legge coranica per l’ assassinio di un congiunto. È successo per la famiglia di Kainat Salamat, 17enne stuprata e uccisa il 5 maggio da datori di lavoro musulmani nella casa dove prestava da anni lavoro domestico con orari prolungati per una quarantina di euro al mese. Meno di 5mila euro l’ indennizzo pattuito. Quattro volte tanto e superiore a quanto previsto dalla legge, il compenso accettato dai sei poliziotti responsabili delle efferate torture che il 9 ottobre 2017 sono costate la vita allo studente Arslam Masih.
Stefano Vecchia
Avvenire, 13/05/2018, pagina 22