C’era un tempo in cui si pensava che la piena bellezza dei riti liturgici della Chiesa Cattolica fosse uno strumento efficace di conversione. In fondo anche Benedetto XVI ha detto che le due grandi prove dell verità del Cattolicesimo sono la bellezza e la santità. Questo lo sapeva frate Giovanni de’ Marignolli, mandato in missione nell’impero cinese.
C’era un tempo in cui si pensava che la piena bellezza dei riti liturgici della Chiesa Cattolica fosse uno strumento efficace di conversione. In fondo anche Benedetto XVI ha detto che le due grandi prove dell verità del Cattolicesimo sono la bellezza e la santità. Questo lo sapeva frate Giovanni de’ Marignolli, mandato in missione nell’impero cinese (a quel tempo dominato dalla dinastia Yuan di origine mongola). Già qui furono attivi altri frati francescani, come Giovanni da Montecorvino, Giovanni da Pian del Carpine e Odorico da Pordenone, fra gli altri. Ma la missione cinese sarà sempre tra le più ardue, per vari motivi.
Giovanni de’ Marignolli fu probabilmente di origine fiorentina, la sua famiglia era attiva nel borgo di San Lorenzo. Nel 1338 gli viene affidata una missione speciale: “Dopo aver preso l’abito francescano in S. Croce a Firenze, fu lettore allo Studium di Bologna, dove due documenti ne testimoniano la presenza nel marzo e nel dicembre 1332. Nel 1338 era ad Avignone da dove partì con un nutrito gruppo di confratelli per una missione diplomatica decisa dalla S. Sede presso l’Impero mongolo del khan Togan Temur (dicembre 1338). Lo scopo della missione era di dare una risposta alle ripetute pressioni provenienti dalla corte mongola e dai dignitari cristiani lì operanti per ristabilire una presenza francescana dopo la scomparsa dell’arcivescovo di Pechino Giovanni da Montecorvino, morto ben 10 anni prima. Il presule non era stato infatti ancora sostituito nonostante Giovanni XXII, il 18 sett. 1333, avesse nominato il successore nella persona del frate minore Nicolò, scomparso l’anno successivo prima di raggiungere quella sede.
Per motivi imprecisati il capo della delegazione nominata nel 1338 da Benedetto XII, Nicolas Bonet, dovette rapidamente rientrare ad Avignone e il M. prese il suo posto, pur senza che vi fosse stato un provvedimento ufficiale a sancirlo. Già a Costantinopoli, nel maggio 1339, fu lui a tentare un riavvicinamento con il patriarca greco Giovanni (XIV) Calecas. Il 24 giugno il M., passando per Caffa e Azov, giunse a Saraj, accolto da Uzbek Khan che lo rifornì di cavalli e vettovaglie. Nel 1340 la missione raggiunse Almalyk, in territorio khazako, già sede di un importante insediamento francescano distrutto da Ali Sultan che, a differenza del suo predecessore Kazan Khan, aveva bandito tutte le religioni non musulmane dal Khanato. La missione, non avendo rispettato l’editto di proscrizione, era stata devastata e tre frati, un terziario, due conversi, un mercante nonché il vescovo Riccardo di Burgundia erano stati uccisi l’anno precedente l’arrivo del Marignolli. Dopo la morte di Ali Sultan, il M. riuscì a ristabilire buoni rapporti con i nuovi governanti e a far finanziare e ricostruire la comunità, acquistando terreni per nuovi alloggi ed edificando una nuova chiesa.
Alcuni frati della delegazione si fermarono così ad Almalyk per riprendere il lavoro dei confratelli uccisi. Nel 1342 il M. raggiunse Pechino, dopo aver attraversato il deserto del Gobi. Accolti in udienza solenne da Togan Temur il 12 agosto, i trentadue frati consegnarono le lettere del papa e ripresero l’attività di assistenza spirituale ai cristiani residenti a corte. Il khan provvide direttamente ai minori erogando in loro favore anche cospicue somme di denaro (che il M. stimò in circa 4000 marchi), com’era consuetudine delle corti mongole, solite concedere ai frati alafe, vale a dire vitalizi e sussidi imperiali” (Paolo Evangelisti, Giovanni de’ Marignolli. Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 70, 2008).
Insomma, il buon frate Giovanni aveva ottenuto di riallacciare un rapporto che non era facile tenendo conto delle varie distanze, non solo quella geografica ma anche quella culturale, che forse era ancora più importante. Giovanni, questo mi interessa particolarmente qui, ci da questa bella testimonianza nella sua Relatio del suo incontro con il Khan: “Siamo stati ammessi alla presenza del Khan, io indossavo i sacri paramenti, ero preceduto da una bella croce e accompagnato dalle candele e dall’incenso, cantando il Credo in unum Deum alla presenza del Khan, che attendeva nel suo glorioso palazzo. Quando il canto fu finito, gli ho dato la mia solenne benedizione, che egli ha ricevuto con umiltà” (in Jean Pierre Charbonnier, Christians in China, Ignatius Press, 2007, mia traduzione). Che bello pensare che l’annuncio fatto dal frate italiano partiva dalla bellezza della liturgia, dei sacri paramenti, delle candele e dell’incenso, la solennità del latino, il canto liturgico. Il Khan ricevette questo con grande rispetto, pur se non si convertì personalmente. Ma come detto, le distanze culturali fra i due mondi erano senz’altro enormi.
A me piace pensare che la “diversità cattolica” affermata con forza tramite la sua liturgia ha certamente guadagnato quel rispetto e quel sostegno da parte dell’imperatore mongolo, una tappa di una storia che poi vedrà molte luci ed altrettante ombre.
Aurelio Porfiti
La Nuova Bussola Quotidiano, 14 maggio 2018