“Mi amerò lo stesso” è il titolo del libro autobiografico della cantante e scrittrice Paola Turci, che ha incontrato gli studenti dell’Università Lumsa a Roma. L’abbiamo intervistata.
Una cantante di successo e una persona autentica, profonda, che non ha timore di parlare anche degli aspetti più difficili e intimi del suo percorso di vita, segnato da un incidente sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria che le ha cambiato la vita a 29 anni. E poi, dall’incontro “inaspettato e non voluto” con la fede, sul treno che la portava a Lourdes, a 45 anni. “Dopo aver parlato con un frate francescano sono arrivata a Lourdes con il bisogno quasi fisico di confessarmi. Non avrei mai immaginato di tornare dopo 4 giorni sconvolta”. Paola Turci svela la sua vita densa nel libro autobiografico “Mi amerò lo stesso” (Mondadori), di cui ha parlato a Roma nell’Aula Teatro dell’Università Lumsa, piena di studenti emozionati ed entusiasti quanto lei. Sia quando parlava, sia nelle tre canzoni improvvisate regalate al pubblico. “Sono cresciuta in un ambiente a me non consono – ha raccontato -. Non ero una ragazza felice, finché a 16 anni ho capito che la musica era il mio luogo, uno spazio per esprimere ciò che si prova”. Nella lunga chiacchierata sollecitata dal professor Vincenzo Caretti, che è anche il suo analista, cioè “l’uomo che mi conosce meglio di mia madre”, la Turci ha raccontato cosa è avvenuto durante e dopo l’incidente del 25 agosto 1983, quando era nel pieno del successo e della giovinezza. Momenti di crisi e dolore che ha saputo trasformare in opportunità di conoscenza di sé, di evoluzione. “Quell’evento ha tirato fuori tutta la mia forza e la mia debolezza, con cui ho dovuto fare i conti. Ci ho messo 23 anni a liberarmi della paura di far vedere il viso con la cicatrice. Affrontare qualcosa che non ti piace aiuta a scoprire qualcosa che non sai di te”. Ha anche conosciuto la miseria e la speranza in uno dei luoghi più poveri e dimenticati del mondo, Haiti, dove è andata tre volte con la Fondazione Rava. Lì c’è padre Rick, un passionista americano con la laurea in medicina: ogni mercoledì va con i volontari all’obitorio, per dare degna sepoltura a decine di persone senza nome né affetti, tra cui molti bambini. “E’ stata una grande lezione di vita, per dare dignità a chi non ha niente”.
Come è cambiata la tua vita dal giorno dell’incidente?
Mi sono spaccata la faccia e ho riportato 100 punti, che mi hanno accompagnato con fatica durante tanti anni. Adesso li porto con gioia da quando ho scritto il libro, che è stata una nuova pagina della mia vita. L’incidente mi ha cambiata a volte positivamente e a volte negativamente, perché è stato molto faticoso affrontare non solo i 12 interventi all’occhio e il dolore, ma anche le problematiche psicologiche che può causare ad una ragazza di 29 anni nel pieno della sua vita, giovinezza e carriera. Si tratta di ricostruire e a volte è faticoso, a volte molto affascinante.
Cosa ti ha dato la forza di andare avanti e quale messaggio ti senti di portare ai giovani?
L’idea della precarietà, che non abbiamo e non ho più tanto tempo da vivere. Ho pensato che in fondo stavo perdendo il tempo a rispondermi. Non ho nessun messaggio, vivo la vita cercando di fare del mio meglio: e il meglio che posso fare è capirmi e conoscermi e sapere chi sono davvero. E questo si scopre attraverso le proprie passioni, insoddisfazioni, inquietudine, attraverso tutti quegli aspetti che non desideriamo di noi stessi. E’ importante fare tesoro anche della parte negativa.
All’interno di questo percorso c’è stata la scoperta della fede: come è successo e cosa ti ha dato?
La fede è stato un incontro non voluto, inaspettato, inatteso. Anzi alla fede ho cercato di oppormi con tutte le mie forze ma poi mi sono dovuta arrendere alla forza e alla meraviglia che mi stava accadendo.
E’ successo alla stazione Ostiense, la mattina in cui stavo prendendo il treno per Lourdes. Quelle 24 ore di treno mi hanno aiutata a capire che qualcosa stava accadendo. Non ci sono state visioni, nessuna apparizione, soltanto la consapevolezza che Qualcuno mi stava aiutando a fare chiarezza nella mia vita, mi stava prendendo la mano e portando verso territori di pace, di serenità, di amore.
E’ difficile dichiararsi credenti negli ambienti dello spettacolo, che spesso privilegiano l’immagine e l’apparenza?
Io inizialmente ho nascosto la mia fede. Infatti il libro mi è stato di grande aiuto perché mi ha permesso di smascherarmi: di smascherare la mia faccia e le mie debolezze. La fede era una mia debolezza. Avevo la percezione di non poterla sostenere di fronte agli altri. Una donna che a 45 anni scopre la fede, atea convinta – in passato avevo rilasciato dichiarazioni importanti al riguardo – e che poi cambia idea, per qualcosa di così profondo, radicale e importante, è sempre difficile da spiegare. Invece la fede oggi fa parte della mia vita. Ho avuto il grande dono di sentire dentro di me questa bellissima sensazione di non essere sola. E sto bene, anche non praticando. Ho attraversato momenti di crisi, durissimi, difficili. Ho capito che la fede racchiude grande meraviglie e scoperte.
La tua storia testimonia che dai momenti di dolore e crisi possono nascere tante opportunità.
Sì. E’ anche vero che le crisi arrivano sempre. Ne finisce una e ne comincia un’altra. Questo è il senso del tutto. Ma noi siamo chiamati ad affrontarle, perché uscendone scopriamo noi stessi.
Io credo che il senso della vita sia la scoperta di noi stessi. E il grande amore che ci si può dare e che poi si riflette sugli altri.
Il Vangelo dice: ‘Ama il prossimo tuo come te stesso’. Quindi parte dal principio che bisogna amare se stessi profondamente.
I testi delle tue canzoni sono molto poetici, ti esprimi già benissimo attraverso la musica. Cosa ti ha dato in più il percorso narrativo?
Mi ha dato spazi infiniti. La possibilità di avere molte scoperte da fare in avanti, senza limiti, steccati, senza l’uso della metrica e della sintesi che nella canzone ci vuole. E’ un piacere perché è una liberazione della fantasia.
Patrizia Caiffa
SIR, 10 maggio 2018