La Legge 194 non parla mai dell’interruzione di gravidanza in questi termini, sottoponendolo piuttosto a una serie di condizioni stringenti. E la Consulta ha confermato.
Non è un diritto, non è una libertà. È e resta una scelta drammatica ed estrema, che il diritto consente nella misura in cui un bene giuridico costituzionalmente sancito si pone in insanabile contrasto con un altro di pari valore: il diritto alla vita del concepito e quello alla salute fisica e psichica della gestante. È il vero spirito della legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza, la ratio – cioè l’obiettivo – che traspare da tutto il suo testo e che tante pronunce giurisprudenziali hanno confermato nel corso degli anni. Lo Stato «riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio», vi si legge nell’articolo 1.
Quello stesso che più volte la sinistra e le forze radicali hanno tentato di far abolire, scontrandosi con una Corte costituzionale granitica nell’affermare che «il diritto alla vita – si legge per esempio nella sentenza 35 del 1997 –, inteso nella sua estensione più lata, sia da iscriversi tra i diritti inviolabili, e cioè tra quei diritti che occupano nell’ordinamento una posizione, per dir così, privilegiata, in quanto appartengono – per usare l’espressione della sentenza n. 1146 del 1988 – all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana».
D’altronde la legge 194 pone (porrebbe, se fosse davvero applicata ovunque per ciò che dice) maglie molto strette all’aborto, imponendo ogni volta il tentativo di rimuovere le cause per cui esso viene chiesto e subordinando in ogni caso la soppressione della vita nel grembo materno alla messa in atto di procedure piuttosto rigide: colloqui, attivazione di volontari, consulti medici, periodi di riflessione obbligatori… E, attenzione: mai in tutto il testo della norma all’interruzione volontaria della gravidanza viene associato il sostantivo «diritto».
Al contrario – ed è sempre la legge a sancirlo –, ‘diritti’ sono quelli della donna «lavoratrice e madre» a trovare aiuto per conciliare queste due dimensioni, senza vedersi obbligata a sacrificarne una per l’altra. Così questo sfavore per l’aborto riecheggia costante – tranne qualche caso isolato – in tutte le magistrature d’Italia. Comprese le più alte. Per esempio, con sentenza 324 del 2013 la Consulta confermò la procedibilità d’ufficio per reato di interruzione colposa di gravidanza, consentendo quindi ai giudici di perseguire la violazione indipendentemente dalla querela di parte. Tra i motivi della decisione, la tutela costituzionale di cui godono la «protezione della maternità» e la «tutela del concepito».
Sempre sul tema specifico è intervenuta pure la Cassazione, la cui sentenza 20.063 del 2014 ha ritenuto sussistente questa violazione penale qualora una negligenza dell’ostetrica causi la morte del feto. Stessa lunghezza d’onda per i tribunali: quello di Mantova, per esempio, che ha negato l’aborto a una minorenne rifiutatasi di comparire davanti al giudice tutelare per spiegare i motivi della richiesta, e quello di Bologna, che ha deciso (conformemente) un caso molto simile a quello affrontato nel 2014 dalla Cassazione. Resta dunque in chiaro il dramma di ciò che l’aborto è: la soppressione di una vita. La legge non lo tace, i giudici lo ricordano.
Marcello Palmieri
Avvenire.it, 17 maggio 2018