A Stoccolma ennesima gara a rubamazzo tra neofemminismo al traino dell’hashtag e ong per l’uguaglianza di genere. Ma l’obiettivo non è mai lo stereotipo.
Alla fine ci toccherà ridefinire la sindrome di Stoccolma. Dopo aver sospeso l’assegnazione del Nobel in seguito alla bufera per le presunte molestie sessuali che ha coinvolto il marito di una giurata dell’Accademia svedese, dopo aver stanziato quasi mezzo milione di dollari in “filmati di educazione sessuale” (disponibili in lingue diverse dall’arabo al somalo fino al persiano, il curdo e l’inglese, per spiegare il sesso agli immigrati), dopo essersi inventati l’asilo Egalia dove ci si rivolge ai bambini col pronome neutro “hen” (inventato di sana pianta negli anni Sessanta dagli antesignani della teoria del gender e approdato nell’enciclopedia nazionale svedese nel 2012), dopo tutto questo, nella mecca dell’uguaglianza di genere, il maschio pare ormai spacciato.
SPORTIVO, SUDATO. “Uomini non si nasce, si diventa”: è iniziata così una due giorni a Stoccolma dove politici, istituzioni e ong hanno dibattuto sul ruolo di uomini e ragazzi per l’uguaglianza di genere, approdando all’ambizioso obiettivo di poter ridefinire la mascolinità, oggi considerata “tossica”. Tutto ha inizio il 16 maggio, nel corso della quarta conferenza internazionale sugli uomini e le pari opportunità (Icmeo). Racconta Le Monde che per l’occasione l’ong Män för jämställdhet (uomini per l’uguaglianza) ha riproposto il video per le scuole Machofabriken (la fabbrica del macho) contro gli stereotipi di genere: c’è un uomo in mutande che raccoglie da un tapis roulant una serie di mattoni con cui si costruisce quattro mura attorno. Su ogni mattone ci sono scritte cose come “aggressivo”, “competitivo”, “deciso”, “forte”, “sportivo” (?), “sudato” (??).
MASCOLINITÀ TOSSICA. Sì perché le donne non sono le uniche vittime di questa cosiddetta “mascolinità tossica”, definita «alla nascita da norme e pregiudizi, secondo cui un uomo “ha sempre il controllo della situazione, non ha mai bisogno di aiuto, o amici intimi, ama il sesso più delle donne”» (???), dice Gary Barker, presidente della ong Promundo e cofondatore di Men Engage (a cui fanno capo 700 associazioni in 80 paesi). La tesi è che se è vero che il movimento del Metoo ha rotto il silenzio, «non è sufficiente sbarazzarsi di Harvey Weinstein, dobbiamo fare prevenzione». A questo proposito vengono citati studi svedesi secondo i quali i ragazzi che sostengono affermazioni come quelle incriminate da Barker hanno quattro volte più probabilità di essere violenti; non solo, crescendo, i ragazzi esposti alla violenza hanno dalle 2 alle 3 più probabilità di diventare violenti nei confronti delle donne.
OVERDOSE DA MANCATA VIRILITÀ. Viene inoltre fatto notare che il 70 per cento dei suicidi nel mondo è compiuto da uomini, e sempre gli uomini negli Stati Uniti rappresentano i due terzi dei morti da overdose da oppiacei, «non perché i loro corpi siano più deboli rispetto a quelli delle donne, ma perché perché quando non raggiungono un certo ideale di mascolinità, si isolano». E che hanno fatto negli Stati Uniti, notano in Svezia? Hanno affrontato l’emergenza concentrandosi sulla salute mentale piuttosto che ridefinire gli standard della mascolinità. A chi ancora obietta “ma vogliamo trasformare gli uomini in donne?”, Barker ha risposto ridendo «non penso sia mai accaduto! La mia mascolinità non è minacciata se è una donna a proporsi, tenermi la porta o pagare il ristorante».
QUALCHE DOMANDA. Qui nessuno è un premio Nobel, ma qualche domanda ancora ce la facciamo: si è maschi veri secondo quale unità di misura? Gira e rigira nelle bizzarrie del paese di Egalia dove la nuova religione del gender ha imposto i suoi dogmi razionalmente indimostrabili (secondo i quali ogni differenza socialmente rilevante fra uomo e donna è prodotto di un abuso di potere che va rettificato per imporre la norma dell’uguaglianza), spunta sempre un antistereotipo a cui conformarsi. E fa niente se con gli stessi mattoni demonizzati dalla fabbrica del macho si è costruito il paradigma mainstream della donna emancipata, modello sociale da imitare e degnissimo di stima.
In questa gara a rubamazzo tra neofemminismo al traino dell’hashtag e ong di uomini per l’uguaglianza di genere, la posta in gioco non è mai lo stereotipo, ma il maschio stesso. Tutto può frullare nelle leggi della statistica, ma ogni statistica dovrebbe ancorarsi a un’origine: da quando un uomo violento è diventato uno stereotipo di genere e non l’incarnazione umana di un fatto chiamato violenza? E da quando un uomo che si suicida lo fa perché non ha raggiunto il suo ideale di mascolinità – quindi quello di diventare violento, volendo stare a questa lotta senza quartiere agli stereotipi – e non perché non ha più un motivo per vivere?
Caterina Giojelli
Tempi.it, 20 maggio 2018