Intervista a monsignor Kevin Doran fra i sacerdoti più combattivi nel recente referendum sull’aborto in Irlanda.
Se in Irlanda venite a sapere che è scoppiata una polemica mediatica sulle parole di un vescovo, che sulle pagine dell’Irish Times o dell’Irish Independent un commentatore autorevole attacca un vescovo locale, nove volte su dieci potete indovinare il nome del prelato: si tratta di mons. Kevin Doran, pastore della diocesi di Elphin. Una volta la questione è la cosiddetta omoparentalità, un’altra è quello che devono fare gli ospedali cattolici, un’altra è l’aborto. In tutti questi e altri casi le sue dichiarazioni provocano reazioni stizzite, sarcastiche, sprezzanti. Da quello che si legge sui giornali ci si immaginerebbe monsignore come un provocatore arcigno e severo. Tutt’altro. Chi lo incontra si trova davanti una persona pacata, gentile e dai modi urbani, che parla sottovoce per mettere a proprio agio l’interlocutore e non disturbare i vicini. Come capita a molti commentatori che non si conformano al pensiero dominante, le sue parole vengono isolate e citate fuori dal loro contesto. È successo pochi giorni fa, quando mons. Doran sulle pagine dell’Irish Times è stato presentato come motivo di imbarazzo per i suoi confratelli vescovi per aver detto durante una trasmissione radiofonica nella quale si dibatteva del risultato del referendum col quale era stato appena abrogato l’Ottavo Emendamento, introdotto nel 1983 per proteggere la vita non nata, che «se hai votato Sì sapendo e comprendendo che ne sarebbe risultato l’aborto, allora dovresti prendere in considerazione di andare a confessarti». Parole prelevate da un contesto più ampio, di cui i lettori dell’autorevole Irish Times non vengono messi a parte; per ritrovarlo bisogna esplorare le pagine del più modesto Irish Sun, giornale ricco, come il suo gemello inglese, di donne poco vestite. Lì le parole di mons. Doran sono riportate per esteso: «La prima cosa che direi è che la Chiesa è una famiglia e nessuno viene mai cacciato via. Quel che direi a un cattolico che ha votato Sì, è questo: “se hai votato Sì sapendo e comprendendo che ne sarebbe risultato l’aborto, allora dovresti prendere in considerazione di andare a confessarti, e lì saresti ricevuto con la stessa compassione che è riservata a ogni altro penitente”».
Sul referendum per l’abrogazione dell’Ottavo Emendamento mons. Kevin Doran è stato uno dei vescovi più attivi. Ha pubblicato due messaggi, uno alla vigilia del voto, nel quale esortava i fedeli della sua diocesi a votare No, ricordando la dottrina della Chiesa e fornendo ampie spiegazioni fattuali a confutazione degli argomenti a favore del Sì, e un altro all’indomani del voto per condividere la tristezza di quanti avevano votato per mantenere la protezione costituzionale e si sono ritrovati sconfitti. «Desidero incoraggiarvi col pensiero che quello che era vero ieri rimane vero oggi. Ogni essere umano senza eccezione ha l’innato diritto alla vita che viene da Dio, nella cui immagine siamo tutti creati».
Incontriamo mons. Doran a Roscommon, una cittadina che fa parte della sua diocesi. Per prima cosa ci ricorda le parole con cui, nella sua pastorale del 20 maggio, spiegava che i cattolici non potevano votare senza tenere conto di alcun princìpi fondamentali: «Ogni persona ha l’obbligo di votare secondo il giudizio della sua coscienza. La coscienza non è un sentimento o un’opinione. È un giudizio, che si dà usando il dono divino della ragione, e tenendo in considerazioni tutti i fatti rilevanti. Per i cattolici, la formazione della coscienza è guidata dalla Parola di Dio e comprende il dare sollecita attenzione a ciò che la Chiesa insegna».
Mons. Kevin, gli osservatori sono colpiti da un fatto molto evidente: nel giro di 35 anni l’Irlanda si è trasformata da paese dove i due terzi degli elettori avevano introdotto nella Costituzione un emendamento a protezione della vita del non nato, in un paese dove i due terzi degli elettori si sono dimostrati favorevoli all’introduzione di una legge che legalizzerà l’aborto in misura molto ampia. Da cosa dipende questa trasformazione?
Ci sono molti motivi. Uno è che, come in altri paesi, anche in Irlanda è prevalsa una cultura individualista e materialista, le convinzioni sul senso e lo scopo della vita sono cambiate. A ciò è legata un’idea radicale di autonomia individuale, che si riflette nell’idea del diritto di scegliere, anche quando il diritto di scegliere, come nel caso dell’aborto legale, significa scegliere quand’è che un’altra persona morirà. La grande maggioranza degli irlandesi sono persone gentili, piene di compassione per il prossimo, e questo referendum è stato loro presentato come l’occasione per dimostrare la loro compassione nei confronti delle donne in situazioni di crisi a causa di una gravidanza problematica. Inoltre hanno fiducia nell’autorevolezza di medici e scienziati, e molti di questi ultimi li hanno ingannati dicendo in televisione cose non vere sul fatto che legalizzando l’aborto si tutelava la salute delle donne. È una cosa assurda, perché in Irlanda la salute della donna al momento della maternità è fra le migliori del mondo, i nostri dati sulla mortalità materna sono migliori di quelli del Regno Unito e degli Stati Uniti. Un’altra ragione importante da tenere in considerazione per spiegare il voto è la seguente: gli irlandesi usufruiscono da quasi 50 anni dei servizi per l’aborto nelle cliniche britanniche. Decine di migliaia di donne irlandesi sono andate in Inghilterra nel corso dei decenni per interrompere una gravidanza. Queste donne, i loro mariti e le loro famiglie di origine hanno pensato che non potevano dire di No all’aborto legale in Irlanda dopo che vi avevano fatto ricorso andando all’estero. Infine, c’è la questione della perdita della fede. Negli ultimi duemila anni l’Irlanda ha accettato una visione della realtà nella quale Dio è colui che dona la vita e la fonte del compimento ultimo della nostra vita, il nostro Destino, e il nostro compito è dirigere le nostre vite verso il compimento in Dio. Questo è profondamente cambiato. Oggi l’idea prevalente è che io sono colui che dà significato alla mia vita. Dunque sono motivi culturali e spirituali.
L’altro fatto che ha colpito molto gli osservatori è stato scoprire che anche una quantità non trascurabile di cattolici praticanti – chi dice il 30, chi dice il 40 per cento – ha votato a favore dell’aborto legalizzato. Come se lo spiega?
Anzitutto bisogna avere consapevolezza che in molte scelte della vita la fede non è più un punto di riferimento. Nei sondaggi post-voto risulta che solo il 10 per cento degli elettori ha votato tenendo conto della propria fede religiosa. E questo nonostante gli interventi di vescovi e parroci nelle settimane precedenti il voto. Alcuni cattolici hanno spiegato di aver votato Sì per venire incontro ai casi pietosi, e che si aspettano una legislazione abortista restrittiva, ma è chiaro che si fanno delle illusioni. In generale, direi questo: alcune delle persone che vanno a Messa hanno una religione, ma non hanno la fede. Per cui si sono fatti condizionare anche da cose banali, per esempio il desiderio di non creare divisioni in famiglia quando hanno capito che i figli avrebbero votato per il Sì. Come sapete, la grande maggioranza dei giovani ha votato per l’abrogazione dell’emendamento. Ma non tutti: tanti si sono impegnati attivamente nella campagna referendaria, e dopo il voto mi hanno scritto per ringraziarmi delle posizioni che avevo preso e per condividere il loro sconforto. La responsabilità della disaffezione dei giovani è nostra: abbiamo affidato la catechesi alle scuole, che sono cattoliche al 100 per cento a livello di primarie e al 50 per cento al livello di secondarie; abbiamo trascurato il catechismo nelle parrocchie. Nelle scuole primarie ci sono insegnanti incaricati dell’educazione religiosa, ma nelle secondarie l’insegnamento è affidato a docenti di altre materie che devono mettersi a disposizione per l’educazione religiosa: non sono specificamente qualificati. Il risultato è che proprio quando i bambini diventano ragazzi e in loro emergono le domande importanti sulla vita, la loro formazione religiosa è già conclusa. Preso atto del problema, in alcune diocesi abbiamo cominciato a formare una nuova generazione di catechisti per corsi da tenere nelle parrocchie.
Molti la attaccano per la franchezza delle sue argomentazioni. Anche i cattolici che hanno votato per il Sì? Ne conosce personalmente molti?
Probabilmente ne conosco molti, ma sfortunatamente non c’è dialogo con loro: non osano dirmi come hanno votato, non ci tengono ad avere uno scambio di idee con me. Dopo l’intervista radiofonica che ha suscitato l’ira dell’Irish Times ho ricevuto molte e-mail, che turbano più la mia segretaria che me. Molti mi approvavano e mi ringraziavano per aver detto quello che anche loro pensavano, altri dissentivano con educazione. Ma una gran quantità di messaggi erano di critica rabbiosa e incattivita. Il tono sembrava esprimere la personalità di chi li aveva inviati. Quella cattiveria che è la conseguenza logica per chi parte dalla posizione individualista, per chi pensa: «Conto solo io». Persone di quel tipo si sono manifestate anche durante la trasmissione radiofonica, per esempio un ascoltatore ha detto al conduttore che io non
dovevo essere invitato in trasmissione, che era stato uno sbaglio farmi partecipare. Ho obiettato che le minoranze hanno diritto alla parola, devono essere rispettate, e questo ha calmato un po’ gli animi.
Effettivamente si è avuta l’impressione che il voto non riguardasse soltanto l’aborto, ma che per molti sia stata l’occasione per “vendicarsi” dell’egemonia che la Chiesa cattolica ha esercitato a lungo sulla società irlandese, che molti paragonano a una vera e propria teocrazia. Una vendetta tardiva, perché quell’egemonia e quella teocrazia non esistono più da tempo. Che ne pensa?
Sì, è ancora diffusa la percezione che la Chiesa cattolica controlla la vita della gente, mentre questo non è più vero da molti anni. La Chiesa ormai distingue perfettamente fra il ruolo dei pastori e quello dei laici. La campagna per il No nel referendum è stata giustamente guidata dai movimenti pro-life, che sono composti di laici, un certo numero dei quali non sono cattolici ed alcuni nemmeno credenti. I vescovi si sono concentrati nell’annuncio del Vangelo della vita ai fedeli e a chiunque li ascoltava. La rabbia che si nota in certe reazioni è radicata in una comprensione del ruolo della Chiesa nella società decisamente anacronistica, priva di rilievo nell’attualità. Giustamente molte persone sono arrabbiate perché la Chiesa ha fatto molti sbagli nella questione degli abusi sessuali sui bambini, una triste realtà della Chiesa e della società irlandesi. Ma che senso ha come forma di vendetta contro i preti molestatori favorire l’aborto, che è un’altra forma di abuso contro i bambini? Questa storia della teocrazia, poi, è davvero buffa: l’unico potere che vescovi e sacerdoti hanno oggi è quello di annunciare la verità, che non cambia sulla base di risultati elettorali. È vero, ci sono tante scuole sponsorizzate dalla Chiesa cattolica in Irlanda, ma i Consigli di amministrazione sono formati nella quasi totalità da laici, non vedo proprio dove si annidi la teocrazia. Certo, dobbiamo ancora liberarci di strutture superate e intraprendere nuovi modi di fare le cose. Ma senza rinunciare alla verità: ogni vita umana ha valore, ogni vita umana è dono di Dio.
L’Irlanda rurale, tranne una contea, ha votato più o meno come quella urbanizzata. Un altro dato sorprendente.
L’Irlanda rurale non è isolata da quella urbanizzata: la tivù e i social media arrivano anche qua, e la gente viaggia molto spesso dalla sua contea a Dublino, Cork, Galway, ecc. Il cambiamento sociologico decisivo riguarda un’altra cosa, che è la stessa in città come in campagna: nell’Irlanda del passato la maggior parte delle donne erano casalinghe, si prendevano cura personalmente degli anziani e dei bambini della famiglia, sacrificando le altre ambizioni. Oggi le donne lavorano fuori casa, il costo della vita e le esigenze del sistema economico le hanno portate fuori di casa, e una parte di quello che marito e moglie guadagnano se ne va nei costi per assicurare cura ai figli e agli anziani genitori, cure che normalmente avvengono in un ambito diverso da quello familiare. Non dico che bisogna tornare alla realtà di 30-40 anni fa, ma bisogna tenere presenti le inevitabili conseguenze culturali di tutto questo.
Un argomento spesso utilizzato dai fautori dell’abrogazione dell’emendamento pro-vita è l’accusa di ipocrisia: l’Irlanda è stata molto rigida nel rifiuto dell’aborto legale, ma non ha posto ostacoli ai viaggi all’estero delle donne che chiaramente partivano per andare a terminare le loro gravidanze. Ha scaricato il problema sui paesi vicini. Cosa risponde?
Rispondo che l’Irlanda approva le leggi per l’Irlanda, leggi che riflettono i nostri valori e la nostra identità. Da qualche giorno incontro persone che mi dicono: «Non sento più di appartenere a questo paese, mi sento un estraneo», «non ho più la mia identità nazionale». L’aborto per l’Irlanda è stato certamente una questione identitaria. Questo paese nel giro di cinque anni (nel 2013 è stato approvato il matrimonio fra persone dello stesso sesso – ndr) è diventato irriconoscibile, e il suo nuovo volto delude coloro che l’hanno costruito in passato. Ma c’è poi anche da dire che l’Ottavo Emendamento ha salvato migliaia di vite: ha creato quegli ostacoli pratici e psicologici che hanno condotto tante persone che altrimenti avrebbero fatto ricorso immediatamente all’aborto a ripensarci, a trovare qualcuno che li ha aiutati a scegliere per la vita.
Per finire: come la Chiesa sta facendo fronte alla nuova situazione che si è creata, cioè una società dove il suo insegnamento è accettato solo da una minoranza di cittadini e nemmeno da tutti i cattolici?
È troppo presto per dire che stiamo facendo fronte alla nuova situazione, prima dobbiamo riconoscere la nuova situazione in cui ci troviamo: questo non è stato ancora fatto. Fra chi l’ha già riconosciuta, c’è chi non la accetta e c’è chi abbraccia la nuova condizione. Io sono fra i secondi: credo che la libertà che avremo essendo minoranza compenserà il potere che non abbiamo più. Adesso a trovarsi in una posizione scomoda saranno gli esponenti della nuova cultura dominante: saranno loro il bersaglio delle critiche. E mentre loro saranno esposti ad accuse e critiche, noi come minoranza possiamo concentrarci nell’essere testimoni. Una fiamma accesa nella luce del giorno non si nota, una fiamma accesa nel buio della notte risplende per tutti. Nella mia lettera ai fedeli ho ricordato loro le parole di Cristo: «Voi siete la luce del mondo» (Mt 5, 14).
Rodolfo Casadei
Tempi.it, 5 giugno, 2018