La fondazione pontificia “Aiuto alla Chiesa che soffre” ha pubblicato su “Vanity Fair” una lettera aperta politicamente scorretta. Perché non fare un #MeToo della fede?
Nel numero da ieri in edicola del settimanale Vanity Fair compare una pubblicità di grande impatto: si tratta di una pagina finanziata da “Aiuto alla Chiesa che soffre”, la fondazione pontificia che da oltre 70 anni si batte per la libertà religiosa nel mondo. La pubblicità, nella forma della lettera aperta, ha come protagoniste tre donne che hanno subìto, a causa della loro fede, violenze atroci da parte di gruppi religiosi estremistici.
La violenza va condannata sempre e comunque, non deve avere etichette, non c’è una violenza buona e una cattiva, non c’è una violenza da condannare e una violenza da sdoganare. #MeToo è una bellissima iniziativa, e l’ho detto molte volte. Ma non può rimanere sola. Chi ha promosso #MeToo ha un’altra occasione per scendere in campo. Nessuno di noi sa davvero se il proprio cuore è buono fino a quando non ha l’occasione di dimostrarlo a se stesso compiendo un azione per pura bontà, gratuita. Chi si è battuto per le molestie sessuali subite da donne importanti e famose non può sapere quanta rettitudine ci fosse nel proprio cuore se non si muove con altrettante energia per difendere donne povere, credenti, sconosciute. Condannare la violenza subita da donne famose e bellissime e non fare nulla per quella altrettanto odiosa perpetrata a donne sconosciute e poverissime, avvenuta, per di più, a causa della fede o anche, semplicemente, solo perché sono donne, significa oscurare queste ultime, relegarle nel dimenticatoio.
È pericolosissimo dare anche solo indirettamente l’idea che la violenza è un problema che esiste solo se si è una donna bella e famosa. Per subire violenza non c’è bisogno di essere sotto le luci della ribalta: si può subire violenza semplicemente per il fatto di essere donna. Aggiungi poi di essere credente, di essere considerata “ultima” e vedrai crescere vertiginosamente la possibilità di essere molestata o violentata. Quando nel Vangelo si parla della strage degli innocenti, Rachele, la donna che piange i suoi figli (Mt. 2,18), viene chiamata così non per indicare una persona specifica ma perché era un nome comunissimo per le donne giudaiche di allora. E quindi quel nome non rappresenta solo quelle donne ma tutte le donne che subiscono violenza — nel caso concreto perdono i propri figli — a causa di un potere oppressivo e violento come era, allora, quello di Erode.
Trovo meraviglioso che una pubblicità così abbia spazio proprio su Vanity Fair, una rivista di moda che tra le sue pagine ospita di solito figure femminili perfette, bellissime e apparentemente lontane mille miglia da quelle rappresentate in questa occasione. Magari qualche lettrice abituata a sognare tra quelle pagine riconoscerà la propria vita nel racconto delle tre donne perseguitate a causa della fede e si deciderà a reagire e a denunciare. Sarebbe bello che Asia, Meryl, Sharon, Uma, cioè Asia Argento, Meryl Streep, Sharon Stone, Uma Thurman, si muovessero anche per queste donne perseguitate a causa della loro fede. È fondamentale che una rivista di moda riconosca la centralità dell’anima e dell’unione intima tra anima e corpo, tra spirito e carne, come contenuto santo e degno di una persona amata di amore infinito.
Mauro Leonardi
www.ilsussidiario.net, 07 giugno 2018