Padre Talmelli spiega quanto sia importante individuare il margine sottile che separa l’intervento del demonio dalle patologie mentali.
«La vita cristiana è un combattimento permanente. Si richiedono forza e coraggio per resistere alle tentazioni del diavolo e annunciare il Vangelo. Questa lotta è molto bella, perché ci permette di fare festa ogni volta che il Signore vince nella nostra vita». Lo scrive papa Francesco nel capitolo quinto dell’Esortazione Gaudete et exsultate in cui spiega che il cristiano non è chiamato solo a un combattimento «contro il mondo e la mentalità mondana», ma anche «a una lotta costante contro il diavolo, che è il principe del male». Satana esiste – assicura ancora il Papa – è un essere personale che ci tormenta. Gesù ci ha insegnato a chiedere ogni giorno questa liberazione perché il suo potere non ci domini». Sbagliato quindi pensare che il demonio sia «un mito, una rappresentazione, un simbolo, una figura, un’idea. Tale inganno ci porta ad abbassare la guardia, a trascurarci e a rimanere più esposti». Così si finisce preda della corruzione morale, perché si tratta di «una cecità comoda e autosufficiente dove alla fine tutto sembra lecito: l’inganno, la calunnia, l’egoismo e tante sottili forme di autoreferenzialità, poiché “anche Satana si maschera da angelo della luce” (2 Cor 11,14). Come distinguere se «una cosa viene dallo Spirito Santo o se deriva dallo spirito del mondo o dallo spirito del diavolo?», si chiede ancora il Papa. «L’unico modo è il discernimento» che è un dono e una grazia. Include, certo, ragione e prudenza, ma «le supera, perché si tratta di intravedere il mistero del progetto unico e irripetibile che Dio ha per ciascuno e che si realizza in mezzo ai più svariati contesti e limiti».
Le possessioni diaboliche sono un fatto reale, non vanno confuse con le malattie psichiatriche ma non avvengono per caso. Sono, di norma, il frutto di una vita morale corrotta perché il diavolo ci attacca là dove siamo deboli e non smette di ingannarci. Parola di padre Raffaele Talmelli, uno che questo tema scomodo e un po’ inquietante lo conosce bene. Non solo perché è esorcista della diocesi di Siena, ma anche perché, da psichiatra e da psicologo, è in grado di individuare il margine sottile che separa l’intervento del demonio dalle patologie mentali.
Il Papa nell’Esortazione Gaudete et exsultate ci mette in guardia dal considerare “malattie psichiche” tutti i casi di possessione narrati nei Vangeli. A quel tempo, spiega, non era facile tracciare un confine tra malattia e possessione. Oggi invece è più agevole?
Ridurre le narrazioni evangeliche a malattie psichiche è fuorviante. Vorrei ricordare che fra i casi narrati c’è anche quello dell’apostolo Giuda di cui è scritto: “Satana entrò in lui” (Gv 13,27; Lc 22,3). Certo non si può dire che Giuda manifestasse strani sintomi, né si può incolpare l’ambiente sfavorevole: viveva con Gesù, gli Apostoli e la Madonna. Eppure… era ladro (Gv 12,6) e alla fine vendette persino Gesù Cristo. Il Papa quando scrive che il diavolo «non ha bisogno di possederci; ci avvelena con l’odio, con la tristezza, con l’invidia, con i vizi» (GE, 161), ci aiuta a ricollocare la demonologia entro la vita morale.
Che rapporto c’è tra demonologia e vita morale?
Una malsana pubblicità ha portato a pensare che la possessione demoniaca sia una sorta di meteorite che cade dal cielo e colpisce qualche sventurato. È invece, di norma, il frutto di una vita morale corrotta. La Tradizione della Chiesa ci insegna che – fatta eccezione per alcuni santi che hanno subito esperienze diaboliche come “purificazione passiva” – «la possessione ordinariamente non avviene che in peccatori». E, come ha dimostrato Giuda, si possono liberamente coltivare i vizi nonostante l’abbondanza delle grazie riversate da Dio. Gesù incontra il primo indemoniato in una sinagoga; l’Evangelista scrive letteralmente che quell’uomo “era dentro uno spirito impuro” (Mc 1,23) e mette così in luce quale possa essere il terribile approdo della corruzione morale.
E come si colloca il problema delle malattie mentali?
La confusione tra malattie mentali e fenomeni diabolici avviene perché spesso si parla di malattie mentali come “malattie dell’anima”. È bene essere chiari: le malattie dell’anima sono i peccati e i vizi, cioè “atti umani” che, per essere tali, richiedono la “piena avvertenza e deliberato consenso”. Il demonio ci istiga al peccato, ci incita a reiterare i comportamenti peccaminosi fino a renderli “abiti operativi stabili”, cioè vizi. Le malattie mentali, per loro natura, intaccano proprio la “capacità di intendere e di volere”; ciò comporta che, per quanto esse possano produrre comportamenti riprovevoli, la responsabilità morale del soggetto agente sia fortemente condizionata dalla gravità della malattia stessa. La Chiesa da sempre invita a “rettamente distinguere” tra intervento diabolico straordinario e malattie psichiche, e a consultare “persone esperte in medicina e psichiatria, competenti anche nelle realtà spirituali” in modo da evitare clamorosi errori. La Conferenza Episcopale Toscana nel 2014 ha pubblicato precise Indicazioni Pastorali nelle quali si stabilisce, addirittura, che “in presenza di disturbi psichici o fisici di difficile interpretazione il sacerdote non procederà al Rito dell’esorcismo maggiore […] Se una persona è affetta da disturbi psichici, praticarle preghiere di esorcismo sarebbe puramente illusorio e dannoso”.
È proprio vera l’affermazione di Baudelaire: “la più grande astuzia del diavolo è quella di farci credere di non esistere”?
A me pare che oggi moltissime persone credano nel diavolo, persino atei! Ai nostri giorni, credo che l’astuzia del diavolo sia un’altra: polarizzare l’attenzione di cristiani e non cristiani su falsi obiettivi, come ad esempio sul paranormale o, peggio, su comuni sintomi psichici. In questo modo si distoglie lo sguardo dalla realtà in cui il Maligno agisce quotidianamente: «Le guerre, le ingiustizie, gli egoismi, l’induzione alla prostituzione, la pedofilia, la pornografia, la disgregazione della famiglia, le bestemmie conclamate, la cultura dell’indifferenza, dell’ateismo pratico, dell’arrivismo, della sensualità sfrenata», come scriveva il vescovo Giuseppe Zenti. Devo aggiungere che il diavolo ci attacca dove siamo deboli, e le “debolezze di mente” ci rendono più vulnerabili. Per questo il cristiano è sì incoraggiato a far ricorso alla preghiera, ma anche “a fare uso dei mezzi naturali utili a conservare e a ricuperare la salute, cercando di vincere la malattia”. Alla luce di quanto accade, credo che si potrebbe parafrasare così la frase di Baudelaire: «Non dimenticate mai che il più grande inganno del Diavolo è quello di convincere che la sua presenza è da cercarsi negli sbalzi d’umore, nei pensieri ossessivi, nell’insonnia, nei vomiti incoercibili, nelle fobie, nelle voci minacciose, nei rituali ossessivi. In una parola: nell’ambulatorio dello psichiatra».
Come si concilia l’infinita bontà divina con la presenza del demonio e dell’inferno? Non sembrerebbe una contraddizione sul piano logico?
La ragione stessa ci invita a comprendere che non tutto rientra nella nostra logica: il dono della grazia “supera le capacità dell’intelligenza e le forze della volontà dell’uomo”. Per i cristiani, la ragione si apre alla trascendenza; per gli gnostici la trascendenza distrugge la ragione. Sul problema del demonio e dell’inferno, vorrei rispondere con le parole di papa Benedetto: «Dio non è un incantatore, che, alla fin fine, sistema tutto e realizza il suo happy end. È un vero padre; un creatore che afferma la libertà, anche quando essa lo rifiuta. Per questo la volontà salvifica di Dio non implica che tutti gli uomini giungano necessariamente alla salvezza. C’è la potenza del rifiuto. […] È proprio l’incondizionata grandezza dell’amore di Dio a non escludere la libertà del rifiuto e, quindi, la possibilità della dannazione».
Luciano Moia
Avvenire.it, 16 giugno 2018