Chi è il gigante belga che gioca con il cuore di un bimbo e la testa di un guerriero, senza vergogna di inginocchiarsi a pregare dopo la vittoria? Romelu Lukaku spiega la sua infanzia a pane e latte senza elettricità, la promessa fatta a Dio per cui «sin da piccolo mi battevo, al parco o a scuola, come fossi in finale» e la scommessa con il suo allenatore.
Giovedì scorso durante la sfida contro la Gran Bretagna, pur rimanendo in panchina per un problema alla caviglia comparso dopo il 5 a 2 del Belgio contro la Tunisia, in cui insieme al compagno Hazard è stato autore di una doppietta, Romelu Lukaku, 25enne Belga, alto 1.91, di origini congolesi, è corso a congratularsi con il compagno, più giovane di lui di due anni, Adnan Januzaj. Gli ha tenuto la faccia fra le mani e lo ha riempito di apprezzamenti.
Ma chi è il gigante buono che gioca con il cuore di un bambino e la testa di un guerriero e che paragonato a Cristiano Ronaldo per la sua performance al mondiale ha risposto che «ho segnato quanto Ronaldo, è vero, ma non possiamo certo paragonare le nostre carriere»? Ma che sopratutto ha dichiarato durante la conferenza stampa che «non penso in termini individuali, la cosa più importante è la squadra» e non ha avuto vergogna di inginocchiarsi a mani aperte per pregare e ringraziare Dio dopo la vittoria contro il Panama?
L’umiltà di questo giovane viene dalla sua storia durissima e da una fede che non gli ha permesso di dimenticarla dopo il successo. Nato in Belgio da un calciatore che a fine carriera rimase senza soldi e lavoro, fin da bambino viveva in una famiglia in cui il pasto, per lui e suo fratello minore (oggi militante nella Lazio), era solo latte e pane e dove la doccia erano dei pentolini di acqua bollita per mancanza di elettricità e riscaldamento. Lukaku ricorda anche lo slalom per evitare i ratti sul pavimento di casa. A spiegare come uscì da questa situazione è stato lui in un lungo intervento scritto per The Players Tribune: «Avevo sei anni e tornavo da scuola per mangiare durante la pausa. Mia mamma preparava lo stesso menù ogni singolo giorno…Ma quando sei piccolo non ci pensi nemmeno…Sapevo che facevamo fatica». Ma nulla di più. Fu in una sera che si rese davvero conto della situazione della sua famiglia, vedendo la madre mentre allungava il latte con l’acqua perché non era abbastanza nemmeno quello: «Non dissi nulla. Non volevo sovraccaricarla. Mangiai il mio pranzo. Feci una promessa a me stesso e a Dio quel giorno. Fu come se qualcuno, schioccando le dita, mi avesse svegliato. Sapevo esattamente cosa dovevo fare e cosa avrei fatto. Non potevo vedere mia madre vivere in quel modo». Lukaku ricorda la sua fede cattolica, per cui ancora oggi prega e loda Dio decine di volte al giorno e per cui quella notte, «quando con mio fratello e mia mamma stavamo seduti al buio, recitando le nostre preghiere e pensando, credendo, sapendo», capì: «Succederà».
Per questo, ha chiarito il calciatore spiegando la sua forza psicologica, se «la gente ama parlare della forza mentale nel calcio. Beh, io sono il tizio più forte che incontrerete mai». Non a caso disse alla madre in lacrime «che tutto sarebbe cambiato, che avrei giocato nell’Anderlecht: avevo sei anni, chiesi a mio padre a che età si può diventare calciatori professionisti. Lui disse a 16, così dissi: “Ok, 16 allora”». Da quel momento ogni partita giocata dal bambino «era come una finale. Quando giocavo al parco era una finale. Quando giocavo durante le pause anche all’asilo, era una finale». Ma la sua era tutta «potenza. Nessuna finezza».
Una furia insomma, alimentata, oltre che dalla fame, dai genitori degli altri bambini che per la sua stazza e il suo colore lo guardavano diffidenti: «Quando avevo 11 anni, giocavo per la squadra giovanile di Lièrse e uno dei genitori dell’altra squadra ha letteralmente cercato di impedirmi di andare in campo così: “Quanti anni ha questo bambino? Dov’è la sua carta d’identità? Da dove viene?”». Il ragazzino era solo perché il padre «non aveva una macchina per portarmi in trasferta. Ero tutto solo e dovevo difendermi. Sono andato e ho preso il documento dalla mia borsa e l’ho mostrato a tutti i genitori e loro se lo passavano per controllarlo».
Le difficoltà però non facevano che accrescere la capacità di reazione e la volontà di riscossa di Lukaku. Perciò decise che non sarebbe solo diventato un grande giocatore ma «il miglior giocatore della storia del Belgio…non bravo. Non straordinario. Il migliore». E «giocavo con grande rabbia per via di molte cose…per via dei ratti che correvano per il mio appartamento…perché non potevo vedere la Champions League…per come mi guardano gli altri genitori. Ero in missione». Una missione, così il belga congolese cominciò a concepire la sua vita fin da 6 anni di età, come dovrebbero essere educati a vivere tutti i bambini. Ecco perché a soli 12 anni aveva già segnato 76 goal in 34 partite (una media di 2,2 goal a partita). «Li segnai tutti indossando le scarpe di mio padre».
Ma Lukaku era molto legato anche al nonno materno che viveva in Congo «una delle persone più importanti della mia vita». Ma una volta al telefono, mentre gli raccontava i suoi successi, l’uomo gli rispose: «Sì, bene, ma puoi farmi un favore?». Il ragazzo disse di sì. E il nonno: «Puoi prederti cura di mia figlia?». Il giovane rispose ancora affermativamente ma rimase scosso, solo dopo alcuni giorni capì. Il nonno morì poco dopo.
Arrivato a 16 anni Lukaku ce la fa e firma il contratto con la squadra belga Anderlecht, ma siccome l’allenatore lo teneva sempre in panchina, il ragazzo decise di sfidarlo con una scommessa: «Se mi fai giocare – gli disse – segnerò 25 goal entro dicembre». L’allenatore rise ma accettò con la promessa di rimetterlo in panchina in caso contrario. «Dissi: “Va bene, ma se vinco pulirai tutti i minivan che riportano a casa i calciatori». E alzando la posta in gioco aggiunse: «E farai i pancakes per noi ogni giorno». Lukaku a novembre aveva già segnato tutte le reti pattuite, perché «non si scherza con un ragazzo così affamato».
Infine il debutto in serie A: in quella stagione, il 24 maggio 2009, la prima squadra dell’Anderlecht giocava con lo Standard Liège lo spareggio per lo scudetto, il giorno prima il giovane aveva ricevuto una chiamata dall’allenatore delle riserve che gli chiedeva cosa stesse facendo. Lukaku rispose che stava per andare al parco a giocare a pallone ma l’uomo continuò: «No, no, no, no, no. Fai i bagagli ora…devi venire allo stadio adesso, la prima squadra ti vuole». Il giorno della partita il ragazzo scese dall’autobus indossando una tuta vecchia mentre i giocatori della prima squadra erano tutti in abito elegante, ma non importa, «ho corso sul campo per l’Anderlecht a 16 anni e 11 giorni. Abbiamo perso la finale quel giorno, ma ero già in paradiso. Avevo realizzato la promessa fatta a mia madre e a mio nonno. Quello fu il momento in cui capii che saremmo stati bene».
Il calciatore ha aggiunto che «vorrei davvero tanto che mio nonno fosse presente per assistere a tutto questo», ma non parla del suo successo con l’Everton prima e con il Manchester poi, né della Champions League o dei mondiali: «Vorrei poter avere un’altra telefonata con lui…”Vedi? Te l’avevo detto. Tua figlia sta bene. Niente più ratti nell’appartamento. Niente più notti a dormire sul pavimento. Non più stress. Ora stiamo bene».
Benedetta Frigerio
La Nuova Bussola Quotidiano, 2 luglio 2018