Una madre racconta con ironia e rabbia l’epopea passata per iscrivere la figlia di tre anni alla scuola materna con l’assistenza necessaria: «Dopo otto mesi siamo punto a capo. Ma questa è l’era dell’inclusione, giusto?».
Pubblichiamo una nostra traduzione del messaggio pubblicato su Facebook da Caroline Boudet, madre di Louise, bambina con sindrome di Down, e fondatrice dell’associazione ExtraLouise, che si batte per cambiare lo sguardo della società sulle persone affette da Trisomia 21. In Francia il 96% dei bambini Down viene abortito prima della nascita. Il post è intitolato: “Di’, mamma, che cos’è l’inclusione?”.
Questa sera, 29 giugno, sono più di sette mesi che noi, genitori di Louise, che ha tre anni e mezzo e un cromosoma in più, ci battiamo perché lei possa tornare a scuola a settembre nelle migliori condizioni. Volete sapere cosa significa battersi perché vostro figlio handicappato faccia il suo ingresso alla scuola materna nel 2018 in Francia? A novembre 2017 noi abbiamo cominciato a raccogliere tutti i documenti necessari per fare una domanda di Avs (insegnante di sostegno, ndr). Perché così in anticipo? Perché il Mdph, l’amministrazione che decide l’assegnazione di aiuto umanitario per le persone handicappate, ci mette in media cinque mesi nel nostro dipartimento a smaltire i dossier – e si tratta di una media bassa per la Francia.
Abbiamo cominciato così tanto in anticipo perché noi vogliamo arrivare al mese di maggio o giugno e avere un documento ufficiale che permetta all’educazione nazionale di assumere qualcuno e che questo qualcuno arrivi in tempo per l’inizio della scuola. Perché noi vogliamo FARE LE COSE AL MEGLIO. Allora, a partire da novembre abbiamo: riempito un dossier di domande di 20 pagine, raccolto certificati medici, dettagliato come passa le giornate Louise, spiegato per iscritto qual è il suo «progetto di vita» a tre anni e perché ci sembrava la cosa migliore per lei, dopo l’asilo ordinario insieme ai suoi compagni, iscriverla alla materna con gli altri.
Dopo tutto, siamo nell’era dell’inclusione, giusto? E che inclusione sia, quindi inclusione significa preparare con 10 mesi di anticipo il rientro a scuola sul piano amministrativo; aspettare cinque mesi; ricevere una «notifica», un documento asettico che vi annuncia una decisione che non capite: «Attribuzione di una Avs mutualizzata»; cercare di capire che cosa voglia dire: quante ore [questa persona] sarà con Louise, quando arriverà, chi la assegnerà? Inclusione significa capire che una «Avs mutualizzata» è una persona che lavorerà con più bambini, forse in più scuole diverse. Significa domandare «quante scuole?» e «quante ore starà con Louise?».
Inclusione significa sentirsi rispondere quando va bene «non possiamo dirglielo, 10 ore a settimana al massimo. Quando? Non lo sappiamo», e quando va male non avere punto risposta. Significa sentirsi rispondere, quando spiegate il progetto di scolarizzazione, come prima cosa: «Ma non avete pensato di lasciarla ancora all’asilo?». Una volta. Due volte. Tre volte. Significa avere paura di fare una FOLLIA, farsi consigliare, capire che andare alla materna con la Trisomia 21 non è come fare un viaggio sulla Luna. È fattibile. È desiderabile.
Allora si rifa un dossier, con un nuovo certificato medico, con i pareri dei professionisti che seguono Louise, per spiegare che sarebbe davvero meglio per tutti, insegnanti e alunni, se nostra figlia beneficiasse di una Avs per più «di 10 ore a settimana al massimo». Perché come genitori capiamo che non c’è niente di evidente e vogliamo facilitare le cose a tutta la classe della materna di 25-30 alunni. E vorremmo davvero, davvero rassicurare tutti perché Louise possa entrare in classe serena.
L’inclusione dunque significa inviare di nuovo questo dossier, ad aprile, in più copie, con un corriere, con raccomandata. E aspettare che venga ricevuto. E chiamare due, tre, cinque volte per poi sentirsi dire a giugno: «Ma certo, l’abbiamo ricevuto il 14 maggio, ma davvero non possiamo esaminarlo prima di settembre». E noi, con tutta la nostra buona volontà, ci portiamo avanti, incontriamo l’équipe pedagogica, organizziamo una riunione con 13 persone attorno a un tavolo. Tredici persone, voi capite il punto: impressionante, non è vero?, quando ci si ricorda che stiamo preparando l’ingresso in una classe della materna e non il prossimo vertice dell’Onu.
Ma vale tutto, è utile, superiamo le nostre preoccupazioni e discutiamo con queste persone attorno al tavolo che sono motivate ad aiutare Louise perché faccia il suo miglior ingresso a scuola. Siamo in giugno, tutto sembra prendere forma, la scuola è pronta ad accoglierla, l’insegnante e l’Atsem le abbiamo incontrate, il centro vacanze è ai blocchi di partenza, la fisioterapista, l’ortofonista, la psicomotricista pronte a recarsi alla scuola come facevano all’asilo per le sedute di rieducazione a Louise. Quindi, anche se a giugno rimane ancora un grande punto interrogativo su questa storia dell’Avs, prendiamo con una mano un ansiolitico, con l’altra teniamo a bada l’impazienza, questo è l’inclusione, sapendo che ce la faremo. Aspettiamo settembre, con tutta la nostra buona volontà, perché questo è l’inclusione.
E poi BAM, a fine giugno una telefonata ci informa che alla fine non è «assolutamente» più possibile che i professionisti che seguono Louise continuino a venire alla scuola. Perché? Eh, questa cosa non si fa. Bisogna che i genitori la vadano a prendere a scuola e la portino dai professionisti. Oppure paghino una baby-sitter per farlo. Nel frattempo, quando vi chiamano, lo fanno per chiedervi se avete considerato la possibilità che vostra figlia resti ancora un po’ all’asilo (quinta volta). Allora a quel punto tu madre, ma anche segretaria, organizzatrice, funzionaria, amministratrice, sei in ginocchio. Hai profuso tutte le tue energie perché nell’inclusione tu ci credi. Ma hai le gambe che vacillano e la voce che trema. Perché il messaggio non è mai: «Benvenuta nella scuola della Repubblica».
Allora poiché su questa pagina condividiamo i progressi, le gioie, le fatiche, la realtà senza abbellimenti della vita con un bambino portatore di handicap, questa sera vi racconto la mia collera, la mia delusione, il mio scoraggiamento, il mio sentimento di ingiustizia e soprattutto di solitudine davanti a tutto questo. Sono passati sei mesi e siamo punto a capo. E adesso, che si fa? Adesso, quando voi sentirete questa piccola frase: «Sì, lui/lei va a scuola, abbiamo fatto tutto perché possa…», saprete che cosa si nasconde pudicamente nella vita delle nostre famiglie.
P.S.: e devo precisare che sfortunatamente noi siamo in una situazione che è ben lungi dall’essere la peggiore.
Caroline Boudet
Tempi.it. 6 luglio 2018