Abbondano le risposte a muso duro alle richieste di “aggiustamenti strutturali”, cioè manovre o manovrine, nel 2018 e nel 2019. La Commissione europea è ritenuta un luogo ostile, nonostante la Corte dei Conti europea ( che rivede in autonomia entrate e uscite Ue) abbia certificato che i Governi italiani abbiano beneficiato più di altri in questi anni di una grande flessibilità. I tempi cominciano a stringere e da settembre tante idee economiche dovranno fare i conti con le compatibilità di bilancio mentre l’economia rallenta. L’Fmi ha ridotto le stime di crescita in questi giorni all’1,2% per l’anno in corso e all’1% per il prossimo (era 1,5% e 1,1%). Non mancherà l’attenzione di chi, dall’estero e dall’Italia, continua a prestare soldi allo Stato. Il nuovo Governo ritiene di avere buone carte da contrapporre al pressing delle diverse istituzioni europee. Si vedrà.
Se si guarda al recente passato, hanno ottenuto un successo breve le politiche economiche poco attente ai vincoli di compatibilità fra entrate e uscite. Quelle che tanto piacciono all’elettorato e, viceversa, diventano un rischio per chi ha prestato soldi agli Stati. Tanto più l’economia è debole, tanto prima i creditori – altri Stati, investitori professionali e privati – hanno potuto ottenere (o imporre) un ritorno al realismo dei numeri. Anche quando è stata tentata la via di fuga nel bunker dei confini nazionali, il rifiuto orgoglioso dell’amara medicina di bilancio sollecitata dall’estero è durato poco. Due casi.
Era il gennaio del 2015 e Alexis Tsipras, leader della formazione greca di sinistra Syriza, respinse sdegnosamente le proposte di tutela economica europea in cambio di riforme e sacrifici. Nei due anni precedenti Tsipras aveva rifiutato l’intervento di tutor istituzionali internazionali in nome della libertà e della storia del popolo greco. Diventato premier nello stesso mese dichiarò che la vittoria elettorale era una indicazione di popolo per: “Chiudere con il circolo vizioso dell’austerità, annullare il memorandum dell’austerità. Il popolo greco ha messo la Troika (Ue-Bce-Fondo Monetario Internazionale) nel passato, il popolo greco ci dà il mandato per un rinascimento nazionale”.
Posizione confermata a luglio in un referendum popolare ma, nei fatti, smentita qualche settimana più tardi quando Tsipras prese atto con realismo dell’impossibilità di mandare avanti un’economia senza accordi con i creditori e le istituzioni internazionali.
Tsipras è ancora al Governo, se ne è andata l’ala più radicale del suo partito; si è allontanato l’economista Yanis Varoufakis uno dei pochi che oggi non rifila a Tsipras l’accusa di tradimento. In questi anni la Grecia è stata sottoposta alla cura dei finanziamenti con verifica internazionale.
Se si torna indietro di altri 13 anni, in Argentina il default (cioè il mancato pagamento degli interessi sulle obbligazioni di Stato e di alcune province, senza restituzione del capitale) diventò una battaglia contro i “creditori avvoltoi”. Il Paese, in difficoltà economiche, non riuscì più a ottenere prestiti all’estero e faticò a mantenere la spesa ordinaria. I coniugi Kirckner, succedutisi al potere in quegli anni, si vantarono di non chiedere prestiti all’estero per “farla finita con la logica dell’indebitamento eterno. E con il business perenne di banche, intermediari, commissioni, ecc, che avevano finito con il portarci al default del 2001”. L’Argentina ha dovuto poi fare i conti con i creditori, restituendo capitale e interessi anche a centinaia di migliaia di famiglie italiane che avevano sottoscritto i Tango Bond. Ora è tornata a chiedere e ottenere prestiti.
Anche se l’Italia ha un’economia più forte, le crisi di Grecia e Argentina vengono spesso richiamate come rischio estremo in caso di mancato rispetto dei vincoli di debito pubblico.
“La scelta strategica – ha detto il presidente dell’Associazione bancaria italiana (Abi), Antonio Patuelli – deve essere di partecipare maggiormente all’Unione europea impegnando di più l’Italia nelle responsabilità comuni, anche con un portafoglio economico nella prossima Commissione europea. Altrimenti l’economia italiana potrebbe finire nei gorghi di un nazionalismo mediterraneo molto simile a quelli sudamericani”. Ed è soltanto uno dei segni di apprensione che si manifestano, in Italia e all’estero, in attesa che il nuovo esecutivo guidato da Giuseppe Conte illustri quali iniziative di politica economica segneranno la prima parte del percorso di Governo; leggi che dovranno avere un dettaglio superiore a quello contenuto nel programma dell’alleanza Lega-5Stelle. Dovranno avere le necessarie coperture. Complice una campagna elettorale dalle mille promesse, fino ad ora i vari ministri hanno accentuato la distanza dalle precedenti gestioni e allungato la lista dei “nemici”: Unione europea, Ceta (l’accordo Ue con il Canada che non si intende ratificare), in parte la Bce, diversi Paesi europei per il disaccordo sui migranti e, in Italia, l’Inps, la Legge Fornero, i tecnici della Ragioneria di Stato e così via.
Abbondano le risposte a muso duro alle richieste di “aggiustamenti strutturali”, cioè manovre o manovrine, nel 2018 e nel 2019.
La Commissione europea è ritenuta un luogo ostile, nonostante la Corte dei Conti europea ( che rivede in autonomia entrate e uscite Ue) abbia certificato che i Governi italiani abbiano beneficiato più di altri in questi anni di una grande flessibilità. I tempi cominciano a stringere e da settembre tante idee economiche dovranno fare i conti con le compatibilità di bilancio mentre l’economia rallenta. L’Fmi ha ridotto le stime di crescita in questi giorni all’1,2% per l’anno in corso e all’1% per il prossimo (era 1,5% e 1,1%). Non mancherà l’attenzione di chi, dall’estero e dall’Italia, continua a prestare soldi allo Stato. Il nuovo Governo ritiene di avere buone carte da contrapporre al pressing delle diverse istituzioni europee. Si vedrà.
Paolo Zucca
SIR, 18 luglio 2018