Pare che il calcio abbia altre regole rispetto a quelle del mondo. E il tutto è giustificato dal fatto che lì ci vivono gli idoli delle masse a cui tutto è permesso. Anche la persona più morale, di fronte all’idolatria del CR7, portrebbe rispondere che “il calcio va da sé”. Ma che sia così è un’illusione, basti pensare alle folle che raggiunge.
Al di là della pretestuosità degli scioperi alla Fiat e del fatto che 100 milioni di euro non possano risanare la situazione di un’azienda che fatica ad operare in Italia, dati i costi del lavoro e le regole del mercato, bisognerebbe chiedersi se sia stato opportuno spendere 150 milioni di euro per acquistare Cristiano Ronaldo a cui gli Agnelli hanno promesso uno stipendio stagionale di 30 milioni netti di euro. Bisognerebbe chiederselo, appunto, ma non si fa, perché di opportunità o di moralità quando si tratta di calcio oggi non si può più parlare.
Pare infatti che il calcio abbia altre regole rispetto a quelle del mondo, anzi pare che non le abbia proprio. E il tutto è giustificato dal fatto che lì ci vivono gli idoli delle masse, gli “dei” senza limiti a cui tutto è permesso purché facciano goal. Anche la persona più morale di fronte all’acquisto folle e all’idolatria del CR7 potrebbe rispondere che “il calcio è il calcio e ha le sue leggi”. E se gli si facesse notare che insomma forse non è proprio il caso di esaltarsi per un narciso come Ronaldo, icona di interessi miliardari per cui l’uomo va misurato sulla capacità di emergere e di vivere per diventare la persona più famosa e pagata di questo sport, probabilmente risponderebbe che “la vita privata e quella pubblica vanno divise”, che la “politica e calcio” sono due cose diverse.
Figurarsi a ricordare che Ronaldo è un prepotentemente innamorato di sé, che ha fabbricato bambini a sua immagine e somiglianza strappandoli ai seni di madri ignote per farne una sua proiezione, un oggetto sia del suo business sia di quello dell’utero in affitto. “Sarà pure”, si dice, “ma calcisticamente parlando lui è il numero uno”. E allora si accetta che i propri figli, magari ancora piccoli, si esaltino nel sentire parlare di lui, nel vederlo segnare, come se questo non avesse effetti sul resto della loro vita.
Peccato che ne abbia eccome, perché che il mondo del calcio sia un mondo a sé è la più grande illusione in cui chi manovra oggi le sue sorti vuole farci cadere. È infatti impossibile che lo sport più capace di raggiungere ogni ceto, razza, età e classe sociale, incida sulla mentalità meno della musica, della tv o del cinema. Crescere, ad esempio, sentendo dire nelle trasmissioni calcistiche più seguite come Balalaika che Ronaldo è «in vacanza con i suoi figli, uno avuto dalla compagna e gli altri senza madri», fra una battuta e un’altra, non è senza conseguenze. Immagazzinare l’idea che la misura di un campione sia data dal suo stipendio (si sa che Ronaldo voleva dimostrare la sua superiorità su Messi anche così) non è indenne. Figurarsi vedere le foto del calciatore su ogni canale e web insieme a suo figlio che fai i muscoli come lui, costruito a sua immagine (Ii CR7 stesso ha dichiarato che «insegno ai miei figli ad essere numeri uno», sottinteso, «a diventare me»).
Quello che passa è infatti l’ideale di un uomo che ama solo se stesso e che quindi, oltre che produrre soldi intorno alla propria immagine, resta sterile, incapace di generare altro da sé. Ma non importa perché Ronaldo è Ronaldo, Ronaldo può. E poi ormai “funziona così ovunque”, si argomenta. Anche se non è così, perché quando Elton John si è comprato i figli o Vendola ha fatto lo stesso, quantomeno si è aperto un dibattito. Sì, si tratta il calcio come una zona franca dove abbassare le difese, dimenticando che zona franca non può rimanere. Tanto che pure Avvenire, che sulla carta è ancora contro l’utero in affitto ha fatto eccezione «perché c’è la coda allo Juventus Store, perché tutti vogliono vedere il campione, guardarlo dal vivo, “indossarlo”, verrebbe voglia di dire. E perdonarlo persino per decisioni come quella di affittare grembi di donna per “farsi fare” i figli desiderati a ogni costo».
L’altra conseguenza di questo clima è la fuga dei campioni che, raggiunto un certo livello, anziché migliorarsi o cercare di dare un contributo al bel calcio vanno a rovinarsi in Cina dove sono letteralmente ricoperti d’oro. Una bella differenza rispetto a nazionali come l’Uruguay di Tabarez, che ha rivoluzionato la Celeste (dall’88 ad oggi con un intervallo) crescendo gli stessi campioni fin da piccoli e mettendoli all’interno di un gruppo con un’etica e dei valori chiari da seguire.
È ovvio che con l’entrata in gioco di società e di fondi di investimento miliardari e più impersonali tutto questo è venuto meno. E che il calcio tenda a passare sempre più da un gioco di squadra fatto di persone, ognuna importante perché funzionale al tutto, ad un gruppo limitato di individui strapagati che giocano insieme ma per sé. Ma se si prova ad essere sinceri è impossibile non preferire la fedeltà dei calciatori, lo spirito di sacrificio di allenatori che non mollano le squadre per anni, che puntano su alcuni, li allevano e li valorizzano. È impossibile non ammettere che sia più sano preferire che il modello di un figlio sia uno che la pensa così «non ragiono in termini individuali, la cosa più importante è la squadra» (Lukaku), a uno convinto che «la troppa umiltà è un difetto», «dovrebbero cambiare nome alla Champions e chiamarla CR7 Champions League» (Ronaldo).
Ma per capire lo scarto di mentalità generale fra il calcio di ieri e quello degli ultimi anni basta leggere il commento di Spalletti alla vittoria della Champions da parte del Real, paragonandolo alle parole di Trapattoni. Il primo ha detto che «per arrivare nelle ultime quattro bisogna avere giocatori forti, che trovano soluzioni da soli come stasera». Mentre il secondo in un’intervista a Giulio Serri spiegò che allenare «vuol dire dare una morale, un’etica di educazione» che «il mio mestiere non è solo una questione di disciplina, quanto di crescita culturale. Una grande responsabilità che insegni loro per esempio la conquista di ogni cosa, attraverso i sacrifici. Altro valore fondamentale da trasmettere è lo spirito di appartenenza ad un gruppo, senza dimenticarsi mai delle proprie origini, dei genitori che ti hanno mantenuti, il più delle volte con immani sacrifici», ma «purtroppo sono le deviazioni, gli scandali, questi legami fatti di interesse che fanno perdere la bellezza di questo gioco. Il calcio deve rimanere un bellissimo sport, una gara di vita e di correttezza che non può abbassarsi a un mero strumento di guadagno». Perché se tale diventa, selvaggio e senza etica, non può non avere conseguenze sportive e culturali enormi.
Benedetta Frigerio
La Nuova Bussola Quotidiano, 13 luglio 2018