La storia di Stefano, in carcere per omicidio, che oggi è custode dei ragazzi salvati dalla strada sull’esempio del prete martire. «A loro dico: non fatevi ingannare».
«l mio compito qui? È tenere a bada questi teppistelli». Sguardo fermo e corpo massiccio, Stefano Taormina scherza mentre è seduto davanti a una scrivania appena dietro la porta d’ingresso del “punto sociale” del Centro Padre Nostro. Un presidio fra le “saracinesche” di Brancaccio, nei sottoscala dei condomini monster che sono ancora lo specchio dell’emarginazione e del disagio sperimentati giorno dopo giorno nel quartiere di Palermo entrato nell’immaginario collettivo come il bunker di Cosa Nostra. In quattro stanze ci sono una sorta di asilo nido, il recupero scolastico, i laboratori del gruppo giovani. Tutte iniziative scaturite dalle intuizioni di padre Pino Puglisi. E a dare il benvenuto ai ragazzi che le frequentano e alle loro famiglie c’è appunto Stefano. Ha 61 anni ed è stato condannato all’ergastolo. Ne aveva 21 quando è finito in carcere. «Ho iniziato rubando le auto. Poi ci sono state le rapine e gli omicidi». Oggi è in semilibertà. Esce dal penitenziario al mattino e rientra alla sera. E trascorre la giornata come custode di una delle strutture del Centro Padre Nostro fondato dal sacerdote beato nel 1991. «Ho conosciuto il presidente Maurizio Artale durante uno dei suoi colloqui in carcere. Di solito non prende persone che hanno sulle spalle pene da scontare come le mie. Ma si è fidato…». E adesso lui si definisce un suo «collaboratore».
A Brancaccio Stefano è nato. «E ci ho vissuto nel pieno del potere mafioso – dice –. Oggi qualcuno con quella mentalità è rimasto. Ma soprattutto rimangono i tanti problemi del quartiere. Qui i ragazzi crescono da soli, abbandonati. Già avere la terza media è una conquista. Nessuno insegna le minime regole di civiltà». Lo fa, invece, il Centro Padre Nostro sulle orme di Puglisi. «Ha trasformato il quartiere – sostiene Stefano –. Se abbiamo campi sportivi, aiuti alle famiglie, un auditorium, lo dobbiamo al Centro». Lui non ha conosciuto di persona il sacerdote martire. «Però si parlava molto del parrinu nella zona durante quegli anni». Nel 2018 spiega che «per me padre Puglisi è tutto». E confida: «Ho la sua immaginetta anche nel portafoglio. Però non riesco a dipingerlo». Perché Stefano si è scoperto pittore dietro le sbarre. «Ho iniziato grazie a un compagno di cella francese. E mi sono appassionato. Mi reputo anche un discreto artista, ma non quando c’è di mezzo don Pino. Ho provato a ritrarlo molte volte. Ma mi emoziono sempre. Il pennello inizia a tremare e sono costretto a fermarmi».
Stefano è stato anche il testimonial del Progetto Pari, un percorso per promuovere “buone relazioni” nelle scuole superiori di Palermo voluto dal Comune con il Centro Padre Nostro. «Agli studenti ho raccontato la mia adolescenza. Perché ci vuole davvero poco a passare dal bullismo alla delinquenza, da una bravata ai reati. Così a loro ripeto: non fatevi ingannare, non cedete ai richiami dei soldi facili». Quindi rivela: «Già i miei insegnanti mi chiamavano delinquente». Oggi va orgoglioso della sua famiglia. «Mia moglie lavora e abita non lontano da qui. I miei due figli sono già sistemati: lui è un imprenditore, lei ha un ingrosso». Eppure, continua, «le mie notti sono segnate dagli incubi per quello che ho fatto. Non ho mai nascosto gli errori che ho commesso. Infatti sto pagando». Poi la voce si abbassa. «In carcere ho avuto anche un infarto. Il pensiero di aver rovinato un’intera famiglia con le mie mani mi ha talmente tormentato che il cuore ha ceduto. Se sono ancora vivo, lo devo alla polizia penitenziaria che mi ha salvato». Il suo riscatto è iniziato proprio in cella. «Io, che non avevo mai avuto voglia di studiare, ho preso due diplomi. E ho seguito corsi di computer, idraulica, elettrotecnica». Con i suoi quadri, venduti in una mostra a Torino, ha aiutato anche quattro ragazzi rimasti orfani dopo l’alluvione del 1994 in Piemonte. «Un sogno che ho adesso? Poter stringere la mano a papa Francesco e avere da lui una benedizione. So che sarà a Palermo per rendere omaggio a don Pino. Chissà se ci sarà la possibilità di abbracciarlo…».
Giacomo Gambassi
Avvenire.it, 28 luglio 2018