Il rovesciamento delle ragioni per cui è nato il ’68 hanno portato agli attuali egoismi”. Ma i populismi per FAUSTO BERTINOTTI “sono transitori”. E la sinistra? “Deve tornare alle origini”.
“La nave Diciotti sequestrata e il ponte di Genova crollato, tra l’altro con una forza simbolica straordinaria, sono l’immagine della cifra di questa politica, che ha oggi una sua forza e una sua debolezza: la forza dei populismi è quella di stare sulla lunghezza d’onda dell’avversione alle élites e di essere in sintonia con la formazione di un senso comune, in cui entrano purtroppo anche l’avversione al diverso, un punto, questo, davvero terribile. Ma questa politica ha anche una sua debolezza: la contraddittorietà, la fragilità della sua azione di governo. Una debolezza che però non può manifestarsi a breve perché manca un’alternativa, un’opposizione”. Per Fausto Bertinotti, fondatore nel 1991 di Rifondazione comunista ed ex presidente della Camera, “i populismi oggi sono forti perché la politica, intesa come democrazia rappresentativa, è come un morto che cammina”. E i populismi, incapaci di far emergere la vivacità carsica di una società che non è così desertificata come si vuol far credere, “sono nati anche per il rovesciamento delle ragioni per cui è nato il Sessantotto”.
Partiamo proprio da qui. Che eredità ci lascia, 50 anni dopo, il ’68?
Purtroppo non lascia un’eredità oggi percepibile, proprio perché si è prodotto un rovesciamento.
In che senso?
Rovesciamento delle ragioni per cui il ’68 è nato. Subito una premessa: quando parlo del ’68 parlo di uno dei tanti, possibili Sessantotto. Il mio è il “68 trattino 69”, in cui è inseparabile il ’68 studentesco e generazionale, quello cresciuto da Berkeley a Berlino, a Praga, e il ’69 operaio, quello della grande ascesa dell’operaio comune di serie, che ha cambiato il paradigma della vita di fabbrica. Il 68 nasce come speranza, come invocazione, è un grande imprevisto; oggi invece c’è un rovesciamento di quel mondo, di quella profezia, perché si cerca in tutti i modi di far morire la speranza, e di sostituirla con il rancore, l’odio, l’avversione per l’altro.
Un rovesciamento culturale?
Sì. Su questo punto un’interpretazione secondo me molto significativa è quella contenuta nel titolo di un libro bellissimo, “La breccia” di Edgar Morin, che raccoglie una serie di suoi scritti pubblicati a mo’ di reportage su Le Monde negli stessi giorni del Maggio francese.
Perché è significativo?
La breccia è un termine molto significativo, perché è l’apertura in una muraglia di uno spazio entro cui passare. Questo è stato il ’68-69 e oggi questa breccia è stata chiusa da un altro muro che si è giustapposto, la grande contro-rivoluzione, contro-riforma che dura ormai da un quarto di secolo. Quelli che si affermavano come i protagonisti di allora sono stati i grandi sconfitti di questi ultimi 25 anni.
Lei oggi al Meeting di Rimini interverrà sul tema “Oltre il 68. Giustizia e libertà sembravano a portata di mano”. Che cosa è mancato?
È vero che sembravano a portata a mano, perché l’ansia, il bisogno, il desiderio di un mondo nuovo si affacciava e i protagonisti che innalzavano questa bandiera sembravano inarrestabili. Perciò il cambiamento, anzi uso la parola più impegnativa per la politica, la rivoluzione, sembrava a portata di mano. Tant’è vero che nel ’68 si attualizzano tutti i grandi temi del 900, è come se ci fosse una precipitazione che li avesse riportati tutti insieme all’ordine del giorno. In particolare uno su tutti: l’eguaglianza. È questa la chiave di volta del mio ’68-69. Pensi solo a Rousseau, di cui oggi si sente tanto parlare, secondo me, però, malamente.
Che cosa c’entra Rousseau?
Rousseau non è un metodo, tanto meno un algoritmo. È il promotore nella modernità di un’idea della libertà, che è la libertà dell’eguaglianza. Fino ad allora la libertà era intesa come libertà civile, cioè libertà di parola, di pensiero, di fede – tutte cose importanti, intendiamoci -, ma Rousseau, differentemente, pensa alla libertà come conquista dell’eguaglianza. La libertà di farsi persona, di conquistarsi come persona in rapporto all’altro. Lì comincia il grande sogno del 900, che torna di assoluta attualità nel ’68-69, quando si torna alle origini di un ragionamento sull’eguaglianza, ma poi la libertà che si è liberata dell’eguaglianza è diventata il rovesciamento di tutto questo, è lo spettacolo attuale dell’egoismo, dell’individualismo mercantilista, del tecno-mercantilismo.
Nel ’68 le piazze erano gremite, la società era attraversata da una sorta di irrequietezza e la politica non era urlata. Oggi sembra il contrario. Manca la partecipazione popolare? O meglio, può bastare la partecipazione sui social?
Ha colto il nesso, che – diversamente da quello che viene in genere spacciato – non è tra conflitto sociale e urlo. Ovviamente sto parlando di politica: nella politica conflitto e urlo non stanno in contrapposizione. L’urlo è il prodotto di un vuoto, di un’assenza di futuro, di progetto di futuro, e l’urlo scomposto cerca di oscurare questa perdita di prospettiva. L’urlo è una droga, lo si fa per sé, perché si è smarriti. Oggi si palesa per assenza di partecipazione “nella” politica. Un punto a cui tengo molto.
Perché è così importante?
Perché non è vero che la società sia così desertificata. È come se la partecipazione avesse assunto l’andamento di un fiume carsico, e oggi viva sotto traccia. Sotto traccia rispetto alla politica. Invece associazioni, cooperazione, mutuo soccorso, accoglienza, educazione come dono gratuito sono diffusissime, tanto che c’è un bel libro, “Il comune”, la cui tesi è che il processo di liberazione può iniziare solo dalla riscoperta di un tema antico delle forze di cambiamento delle tradizioni cattoliche e operaie, cioè il mettersi insieme, il costruire relazioni. Questa partecipazione in Italia è davvero particolare.
Ma oggi la politica non riesce a portarla a galla…
Perché è morta, e i morti non portano a galla niente. La politica come l’abbiamo conosciuta è come un morto che cammina. Infatti ha una supplenza che è il populismo. È così vero che la politica è morta che contro di essa, su di essa e prendendone il posto si è eretto il populismo. Anzi, “i” populismi.
Perché “i”?
Perché, appunto, sostituiscono la politica. La nuova epoca politica in Europa, non nel mondo, è segnata dalla nascita – contro il degrado, la degenerazione, la morte della politica classica – dei populismi, che sono un fenomeno irrisolto, cioè non è prevedibile, ad ora, l’esito che avranno.
Sta dicendo che il populismo è solo un fenomeno transitorio?
Sì. Non abbraccia un’altra idea di società, nasce nel conflitto tra il popolo e le élites. Non è un’alternativa di sistema, dice semplicemente: via la vecchia politica. E poi ne ripropone brandelli diversi. La Lega è diversa dal Movimento 5 Stelle, a sua volta diverso da Podemos, che è diverso da forze come quelle che fanno capo a Le Pen o a Melenchon o ad AfD in Germania.
I populismi sono la risposta semplificatoria a problemi complessi o la risposta sbagliata a problemi veri?
Entrambe le cose e altro ancora. La politica corrente si è separata dal popolo. In questo quarto di secolo le grandi tradizioni politiche hanno abbandonato il popolo. Pensi in Italia: quella comunista, socialista, democratico-cristiana e liberale hanno espresso forze politiche che, dopo aver riempito la storia del Paese per mezzo secolo, hanno abbandonato la storia e il popolo. I populismi non creano solo una politica, ma un senso comune. Questo è il punto chiave.
Su cosa si basa questo senso comune?
Sentire le classi dirigenti come nemico a sé, è questo il punto di partenza. È come il surfista che sta sull’onda: tu che dovevi rappresentarmi mi hai abbandonato, mi hai tradito, quanto meno nelle mie aspettative. Ora non voglio sapere niente, io sto contro di te, poi vediamo.
Intervenendo al Meeting, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti, ha detto che la democrazia è a rischio, che il Parlamento è il luogo dell’inconcludenza e che servono riforme istituzionali. Che ne pensa?
Questo è stato il leitmotiv degli ultimi 25 anni. Il Parlamento, che era il luogo centrale della politica, anzi aveva una centralità persino dilatata, è stato sostanzialmente e sistematicamente svuotato. L’ultimo quarto di secolo comincia con la sostituzione della democrazia rappresentativa con la governabilità. La Weltanschauung della Seconda, Terza o Quarta Repubblica che dir si voglia – insomma, tutti i numeri dopo la Prima – è fondata sull’idea della governabilità. Il Parlamento viene ridotto a cassa di risonanza del governo, svuotato da coloro – sia di centrosinistra che di centrodestra – che si sono presentati come i riformatori del sistema in nome della governabilità. La stessa idea di riforma costituzionale, proposta numerose volte fino all’ultima promossa da Renzi, ha sempre poggiato sull’idea di alimentare il primato del governo sul Parlamento, riducendo la democrazia rappresentativa a una commedia, secondo la quale l’unico suo giorno di gloria è quando si vota. Con l’aspettativa – fuorviante rispetto a un sistema parlamentare, il cui assetto fondamentale è la rappresentanza del popolo e delle sue aspettative – di voler sapere già chi vince, la competizione. Così si è schiantato anche il pluralismo politico.
Oggi abbiamo al governo un’alleanza giallo-verde di forze populiste. Come giudica i suoi primi mesi di attività? Si colgono i segni di discontinuità?
La discontinuità è quella culturale, a cui accennavo prima, rispetto alle tradizioni politiche italiane dalla Costituzione in poi e alle culture politiche dei partiti che bene o male hanno interpretato quelle tradizioni. È un’altra epoca politica, la cui forza consiste nello stare sull’onda dell’avversione alle élites. Ma la mia domanda è: com’è possibile che due forze così diverse, che si sono presentate al voto in competizione, possono fare il governo?
Che risposta si dà?
Solo per sete di potere? No. In comune hanno la discontinuità con il regime politico precedente. Che fa premio. Il M5s difende le realtà di un mondo come il Mezzogiorno che chiede lavoro e al quale risponde con il reddito di cittadinanza; la Lega esprime gli interessi del sistema produttivo del Nord legato alla filiera tedesca, la cui esigenza principale è essere liberato da lacci e lacciuoli per competere, a partire dalla riduzione delle tasse. Come possono due realtà, prima sociali che politiche, così diverse stare insieme? In un quadro politico tradizionale sarebbe impossibile, ma siccome il punto centrale non è il programma o le forze sociali o la rappresentanza, è il rifiuto del regime precedente a far premio. Ecco la sua forza: lo stare su questa lunghezza d’onda e l’essere in sintonia con la formazione di un senso comune, in cui entrano, purtroppo, anche l’avversione al diverso, un punto che secondo me è davvero terribile.
Sta pensando anche a vicende come la nave Diciotti?
La nave sequestrata e il ponte di Genova crollato, tra l’altro con una forza simbolica straordinaria, sono l’immagine della cifra di questa politica.
Ma questa politica ha una sua debolezza?
Sta nella contraddittorietà e nella fragilità della sua azione di governo: annuncia tagli di tasse, poi non è in grado di proporne un avanzamento; parla di rinazionalizzazione, che sarebbe interessante, delle autostrade e viene immediatamente bloccato; entra in polemica con l’Europa, intanto però tratta continuamente per raggiungere delle compatibilità o almeno per non mettere in discussione i suoi punti centrali, a partire dal Trattato di Maastricht. Dunque, grande forza di propaganda e un “fare” invece servile. Per questo l’azione di governo è sempre adattata, mutevole, cangiante. Ma questa debolezza non può manifestarsi a breve, perché oggi manca un’alternativa, un’opposizione degna di questo nome.
Il Pd, in effetti, sembra concentrato sull’ennesimo cambio di nome. Il problema della sinistra oggi è solo nominalistico?
Per la mia esperienza, sinistra ha avuto un significato, era percepibile come tale da una parte importante della popolazione italiana. La sinistra è nata per ragioni di futuro, di eguaglianza e di libertà, ma la sinistra politica è morta: sia nella sua componente, nell’ultimo periodo maggioritaria, diventata liberale – dire riformista sarebbe farle un complimento grande -, sia quella sinistra che ha cercato di non arrendersi, ma che, in Italia almeno, è condannata all’irrilevanza. La sinistra oggi non c’è.
Eppure avrebbe terreno fertile: lavoro, povertà, diseguaglianze, immigrazione sono temi che chiedono risposte forti dalla politica…
Lo diceva Gramsci: quando tutto è finito, o anche soltanto tutto sembra finito, quello è il momento di ricominciare da capo. La sinistra che non esiste può tornare a parlare solo ricominciando da capo, come l’araba fenice dalle sue ceneri, dalla critica a questo nuovo capitalismo e dall’individuazione delle istanze di eguaglianza e libertà che vivono nella società. E solo facendo società. Prima di pensare a tornare protagonista sulla scena della politica, più che andare sul territorio, come spesso si dice, bisogna essere protagonisti di una costruzione di relazioni sociali extra-mercantili nella società. Solo così la sinistra può rinascere, tornando alla lezione antica della sua nascita, quando costruiva le cooperative, le società di mutuo soccorso, le leghe. Altrimenti è un gioco nominalistico e politicistico che non porta da nessuna parte.
In questi tempi così carichi di rancori, egoismi e disillusioni, può la politica aiutare a rispondere al bisogno di felicità che c’è nell’uomo?
La politica non è la risposta alla domanda di felicità dell’uomo; anzi, la politica è grande quando ha il senso del limite e proprio nel limite produce la sua grandezza. La Costituzione italiana, con il suo articolo 3, in questo è maestra: rifugge dal parlare di felicità, che è un percorso di ricerca che riguarda la persona e il suo rapporto con l’altro. La politica può rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona. Il senso del limite deve essere molto evidente, proprio per evitare che la politica venga sussunta dall’integralismo e dall’autoritarismo.
Come può, allora, concorrere la politica?
Una premessa: voglio parlare di fede come possibilità di intravedere quel futuro che altrimenti non puoi vedere, una fede, non religiosa, che può riguardare una politica. In tal senso, per me, il socialismo è una fede. È stare dentro un cammino. Basti pensare al “Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo: come non vedere in quel quadro una fede che attraversa quelle figure? Ecco, la politica deve ritrovare la fede, non nell’avvenire, ma nell’avvenire che è in grado di proporre al suo popolo. Senza questa fede non c’è alcuna possibilità di concorrere alla felicità, perché la politica si inaridisce e viene sequestrata dalla dimensione tecno-economica. Come purtroppo sta accadendo.
Marco Bicella
www.ilsussidiario.net, 24 agosto 2018