Intervista a don Georges Jahola, che coordina la ricostruzione di Qaraqosh dopo la cacciata dei jihadisti dell’Isis: «Dobbiamo essere pronti anche a una nuova persecuzione».
«Che cosa troverò quando tornerò a casa? In quanti rientreranno dopo essere fuggiti dall’Iraq? Quante perdite subiremo in questa guerra?». Sono queste le domande che don Georges Jahola, originario di Qaraqosh, si faceva nell’agosto di quattro anni fa, quando lo Stato islamico invase i villaggi cristiani della Piana di Ninive obbligando 12o mila persone a scappare portando con sé solo i vestiti indossati al momento della fuga. Dal 2003, su 1,5 milioni di cristiani, oltre un milione ha abbandonato il paese a causa della guerra e delle discriminazioni e l’Isis non ha fatto che dare il colpo di grazia a un trend iniziato con l’invasione americana. Oggi i cristiani sono meno di 250 mila. Da quando i jihadisti sono stati sconfitti e la Piana di Ninive liberata, a fine 2016, i cristiani iracheni si sono rimboccati le maniche e hanno cominciato a rimettere pietra su pietra. «Chi si è stabilito all’estero, fa fatica a tornare indietro», dichiara a tempi.it don Georges, che venerdì ha parlato al Meeting della ricostruzione di Qaraqosh, i cui lavori sono presieduti proprio dal sacerdote. «Dal punto di vista politico non è cambiato niente in Iraq. E senza la prospettiva di una vita migliore, nessuno si arrischia a rientrare. Per i musulmani è diverso: per loro non è un problema riprendere possesso delle loro case».
A che punto è la ricostruzione?
Migliaia di famiglie sono tornate, stabilendosi nelle case ricostruite o messe in sicurezza o in quelle di chi è fuggito all’estero e ha dato il permesso di usarle. A Qaraqosh, che costituisce circa il 60% della Piana di Ninive, la ricostruzione è al 35%, in altri villaggi siamo al 55% o al 60%. Ma il lavoro da fare è ancora enorme: ci sono così tante case bruciate o distrutte.
Quando prevedete che finiranno i lavori?
Dipende dai fondi. Niente è stato ricostruito per merito del governo, che non ci ha dato un soldo. Ha fatto tante promesse e poi non ci è arrivato nulla come risarcimento. Così i cristiani soffrono due volte.
Perché?
Per l’inefficienza dello Stato, come tutti gli altri iracheni, e per la discriminazione come minoranza. La mentalità del paese non è cambiata, noi vogliamo essere protetti dalla Costituzione ma ci sono ancora molti musulmani che appoggiati dai funzionari cercano di acquistare le nostre case e i nostri terreni.
L’invasione dell’Isis ha cambiato il rapporto tra cristiani e musulmani?
Sì, ma direi che il rapporto è comunque buono, specie in alcuni luoghi, come a Mosul, dove anche i musulmani hanno sofferto per mano dei jihadisti. Ovviamente gli estremisti rimangono e dobbiamo stare attenti, ma convivere è l’unico modo per rimanere in questa terra.
Che cosa serve ai cristiani per continuare a vivere in Iraq?
Soprattutto la pazienza, perché sono sicuro che se restiamo in questo momento di difficoltà il futuro sarà diverso, e poi la capacità di lottare. Noi dobbiamo lottare per restare qui, per la sopravvivenza. Il nostro compito è testimoniare Cristo in questa terra, non all’estero dove scompariremmo. Qui possiamo portare frutto e io vedo già che molti musulmani si fanno delle domande: perché i cristiani, al contrario nostro, sono pacifici? Solo qui possiamo piantare il seme della pace e di Cristo nel loro cuore.
E se l’Isis o chi per loro tornasse?
La fede è tutto per noi e bisogna mettere in conto anche la persecuzione.
Chi vi ha aiutato di più a ripartire?
Soprattutto Aiuto alla Chiesa che soffre attraverso i fondi raccolti tra i cristiani comuni.
E la Chiesa?
Se devo dire la verità ci aspettavamo di più dai vertici.
Siete contenti per l’elezione a cardinale del patriarca Sako?
Non so perché hanno scelto di farlo cardinale. Da patriarca aveva già un ruolo fondamentale all’interno della Chiesa.
L’Occidente e l’Europa invece hanno fatto qualcosa per voi?
Promesse tante, concretamente niente. Soprattutto è inutile che diano soldi al governo, perché poi di quei fondi a noi non arriva nulla.
I giornali scrivono di nuovi attacchi e di un possibile ritorno dell’Isis. Siete preoccupati?
La stagione dell’Isis è finita definitivamente. Restano molti gruppi armati, politici e militari che si fanno la guerra, come prima. La soluzione può essere solo il disarmo di questi gruppi.
Leone Grotti
Tempi.it, 22 agosto 2018