Il Concilio indicò la strada “riformatrice” e Paolo VI seppe leggere come pochi i tempi. Ma alcuni fratelli nella fede abbracciarono una contestazione che ebbe anche effetti di secolarizzazione .
A seguire la cronologia, la Chiesa cattolica ha preceduto il ’68 rispetto a ogni istituzione o movimento, prima con l’intuizione del Concilio Vaticano II, poi con l’audacia riformatrice di Paolo VI che segna il Novecento con la realizzazione del Concilio e la sua rivoluzione dello spirito. Però, paradosso dei paradossi, proprio Paolo VI è stato uno dei bersagli preferiti da molti sessantottini laici e cattolici. E ciò è avvenuto quando il 68 ha divorziato dalla voglia di cambiare il mondo, e ha preso sfumature di fondamentalismo.
Papa Montini è tra i protagonisti che hanno valutato nei suoi sviluppi il movimento dispiegatosi fino al 1978, collegando esplicitamente le riforme della Chiesa al rinnovamento della società. Il cuore del programma paolino sta nel definire un nuovo rapporto della Chiesa con il mondo, e la società internazionale, nel cambiare le strutture di governo dopo 5 secoli di sostanziale stabilità.
Paolo VI, papa lucido e profetico
Aprire i confini della Chiesa è l’obiettivo strategico dell’Ecclesiam Suam del 1964, con la celebre immagine dei tre «cerchi concentrici, in cui la mano di Dio ci ha posti». Del «primo, immenso cerchio, non riusciamo a vedere i confini: si confondono con l’orizzonte, cioè riguardano l’umanità in quanto tale, il mondo. Tutto ciò che è umano ci riguarda. In questo cerchio sconfinato sono molti, moltissimi purtroppo, che non professano alcuna religione e in diversissime forme, si professano atei».
A loro si rivolge con cura e attenzione, perché «noi cerchiamo di cogliere nell’intimo spirito dell’ateo moderno i motivi del suo turbamento e della sua negazione«, e li vediamo spesso «invasi dall’ansia, pervasa da passionalità e da utopia, ma spesso altresì generosa, d’un sogno di giustizia e di progresso, verso finalità sociali divinizzate, surrogati dell’Assoluto e del Necessario, che denunciano il bisogno insopprimibile del principio e del Fine divino»; «non saremo un giorno capaci di ricondurre alle sorgenti, che pure sono cristiane, tali espressioni di valori morali?».
Questo il linguaggio profetico di una spinta missionaria verso i più lontani ai quali prima si guardava con la negazione e la condanna. La spinta di Paolo VI è verso l’unità del genere umano, col dialogo interreligioso che interessa il secondo cerchio, «immenso anche questo, ma da noi meno lontano: è quello degli uomini che adorano il Dio unico e sommo, quale anche noi adoriamo». Infine, col cerchio «a noi più vicino, del mondo che a Cristo s’intitola» il dialogo, che si qualifica ecumenico, è già aperto.
Paolo VI è uno dei papi in cui di più il pensiero coincide con l’azione.
Si reca all’Onu nel 1965 per riconoscerle in ambito temporale un ruolo analogo a quello che la Chiesa assolve «in campo spirituale, unica e universale»; interpreta la «voce dei poveri, dei diseredati, dei sofferenti, degli anelanti alla giustizia, alla dignità della vita», e formula il suo grido per la pace: «non gli uni contro gli altri, non più, non mai».
Il paradosso di Paolo VI si compie nel 68 con la più grande enciclica della modernità, la Populorum Progressio, che delinea il programma planetario di liberazione dei popoli, della loro uguaglianza e libertà, e anticipa l’era della globalizzazione. Per il Papa, i popoli della terra interpellano la Chiesa per divenire protagonisti della storia, anziché sudditi inconsapevoli, mentre cessa ogni altra dipendenza: la Chiesa non appartiene a nessuno, è di tutti, agisce a favore dei deboli e di tutti i poveri della terra. Però, anziché valersi della primogenitura riformatrice di Paolo VI e del Vaticano II, parte del movimento contestatore si rivolge a lui con asprezza. Prevale l’incapacità di legarsi all’orizzonte riformatore, di tradurre in cambiamento la spinta utopica che animava il movimento giovanile.
Montini, all’inizio del decennio 1968-1978, guarda alla contestazione con lungimiranza. Nel 1969, osserva che «l’uomo ha acquistato la coscienza sia delle deficienze in cui si svolge la sua vita, sia delle possibilità prodigiose con cui si possono produrre mezzi e forme nuove di esistenza, egli non sta più tranquillo: una frenesia lo prende, una vertigine lo esalta, e talora una follia lo invade per tutto rovesciare (ecco la contestazione globale) nella cieca fiducia che un ordine nuovo (parola vecchia), un mondo nuovo, una palingenesi ancora non prevedibile sta per sorgere fatalmente». E aggiunge: «non saremo noi a contestare del tutto questa contestazione, questo bisogno di rinnovamento, che per tante ragioni ed in certe forme è legittimo e doveroso». Quindi, il Concilio «tende a produrre rinnovamento. Ma quale rinnovamento?».
Il panorama del dissenso
Papa Montini vive tutto intero il travaglio che investe la Chiesa e la sua persona, e non è possibile riassumere eventi ed episodi della contestazione che Paolo VI deve subire. Essi riguardano personalità singole, e movimenti collettivi, che arricchiscono il panorama del cosiddetto dissenso: Dom Franzoni, Giulio Girardi, don Enzo Mazzi, Ernesto Balducci.
Ciascuno ha un carattere proprio, e compie scelte che segnano alcuni anni. Quelle di Giovanni Franzoni, abate dell’Abbazia di San Paolo fuori le Mura, che dà vita per anni a una contestazione continua sugli orientamenti della Santa Sede, dal Concordato alla guerra in Vietnam, dal divorzio all’aborto, al celibato. E di altri religiosi, che seguono strade più complesse, Ernesto Balducci teologicamente e culturalmente più ricco, don Enzo Mazzi che anima comunità alternative a quelle parrocchiali, perché «ubbidire alla gerarchia cattolica significa quasi sempre disubbidire alle esigenze profonde, vere e evangeliche del popolo».
La contestazione, anche di segno opposto, coinvolge gruppi e movimenti di più vasta portata, che colpiscono l’opinione pubblica ecclesiale. È il caso del vescovo francese Marcel Lefebvre che rimprovera la Chiesa di Roma di cedere a correnti moderniste, fino a un mini-scisma mai davvero ricomposto.
Ciò che più ferisce, però, investe la teologia, la vita religiosa, il processo di secolarizzazione che non conosce confini. Alcune crisi sono localizzate, ma assai dolorose, come quella della Chiesa olandese che giunge quasi sulla soglia della separazione. Altre, sono prevenute e sanate dalla lungimiranza di Paolo VI che con il suo messaggio di liberazione, anche socioeconomica, di tutti i popoli frena la deriva marxisteggiante della Teologia della Liberazione.
Il 68 e il mondo cattolico: contatti e distanze
Alla Chiesa possono adattarsi, con prudenza, alcune riflessioni generali sul 68. Il messianesimo laico s’amalgama a volte con pulsioni utopiche religiose, e la carica antistituzionale con spinte profetiche verso palingenesi strutturali. Dopo il decennio 1968-’78 non tutto è riferibile alle radici sessantottine, ma da lì prendono spunto: il femminismo religioso, le comunità di base, la critica antropologica su etica e sessualità, la nebbia secolarizzante che ha tanti volti.
Agostino Giovagnoli propone più spunti ricostruttivi sistemici. A cominciare dalla «contaminazioni e influenze reciproche» tra Chiesa e 68, che induce a un nuovo rapporto con la parola e il linguaggio, sconvolgendo quello che Foucault ha chiamato l’“ordine del discorso”, e che porta alle «divaricazioni tra cattolici che probabilmente costituisce l’evento più tipico dell’area cattolica».
Le diversità sono molte e sorprendenti. L’approdo secolarizzato si compie per spinte intellettuali di March Bloch per il quale «solo un ateo può essere un buon cristiano», o per prassi ben visibili, per cui «si perde la fede non appena si entra in politica». Anziché animare la politica con la fede è la politica che secolarizza la fede, provoca la separazione tra fede, cultura, modo d’essere di vita, indicata da Christopher Dawson come speciale forma di secolarizzazione personale. Dentro questo fenomeno si consuma l’abbandono della vita religiosa di prestigiose personalità, che al termine della curva contestatrice, vivono quasi delle crisi esistenziali.
Per Giovagnoli, il 68 ha insegnato che si può non subire il mondo in cui viviamo, ma rimane in molti memoria e nostalgia della fede che s’era quasi persa nell’ansia di una modernità apocalittica. L’intreccio tra utopia religiosa e secolarista resta quella delineata da Franco Rodano, quando nel 1977 osserva che il messianismo religioso colpiva anche la sfera della laicità e del realismo che deve pur sempre salvaguardare la politica come alternativa riformatrice, per non cedere alle derive fondamentaliste. Che poi era lo spartiacque tra il realismo dell’azione politica del pci e di Berlinguer dalla strategia del dissenso cattolico.
I frutti buoni del 68 cattolico
C’è un cattolicesimo forte e ancora diverso, figlio anch’esso del 68, con personalità e percorsi, che animano nuovi movimenti, e impongono le tematiche del futuro. Spicca la personalità di don Lorenzo Milani che innesta nel cattolicesimo italiano l’obiezione di coscienza e la critica alle leggi ingiuste che attira i giovani. E la personalità di don Luigi Giussani che coglie in anticipo la radicalità del secolarismo e della separazione tra fede e cultura, e con Comunione e Liberazione fa propri alcuni tratti del 68, tra i quali un certo orgoglio identitario, e la forza di una fede che resiste. Ancora, la Comunità di Sant’Egidio, fondata da Andrea Riccardi, avvia un originale impegno sociale anche internazionale che guarda al futuro. La stessa scelta religiosa dell’Azione cattolica, che vive duramente la fase dell’abbandono, prepara un cattolicesimo libero dal collateralismo politico.
All’area cattolica, tranne qualche punta estrema, non si adattano critiche feroci che si rivolgono al 68. Quella di essere una «maratona delle chiacchiere», secondo la definizione di Raymond Aron; e l’altra che vede sfumare il 68 in un indistinto patologico o tragicomico, per il quale «se avete i capelli lunghi, andate a lavorare in jeans senza cravatta, se siete vegetariani, fate yoga o fate comicoterapia» ringraziate il ’68 come dicono Jacopo Fo e Sergio Parini.
Si può, invece, rivolgere una più solida critica che riguarda lo specifico dell’area cattolica. A un certo punto il mondo che c’era collassò come un castello di carte, e si perse quella dimensione della razionalità che nella fede e cultura religiosa ha un forte caposaldo. Ma l’analisi critica può anche rovesciarsi e vedere come la mentalità sessantottina sia stata superata nell’area cattolica per una serie di anticorpi che essa aveva ed ha geneticamente innestati: la capacità di guardare lontano, come fece soprattutto Paolo VI, che ha rafforzato nel cattolicesimo la capacità di rinnovamento, senza mai cedere al pessimismo e al nichilismo antropologico. Papa Montini è rimasto il Papa del cambiamento, e della speranza aperta a tutti.
Carlo Cardia
Avvenire.it, 10 agosto 2018