Fenomeno migratorio. Non serve chiudere confini ma rendere sicure strade e piazze

By 16 Settembre 2018Migranti e povertà

È possibile contrapporre al “fuori tutti” una soluzione diversa, migliore e più efficace, che non sia quella del “dentro tutti”?

L’intervento della Chiesa italiana, attraverso la Cei, per sciogliere l’emergenza umanitaria dei profughi eritrei bloccati sulla ‘Diciotti’ rappresenta una eccezione lodevole. Allo stesso tempo, la necessità di un intervento eccezionale rivela la mancanza di una soluzione ordinaria, ed è questa che si ha il dovere di ricercare. Probabilmente il cuore della emergenza sta nella attuale mancanza di una soluzione alternativa alle due che sinora hanno dominato l’immaginario collettivo: ‘dentro tutti’ e ‘fuori tutti’. Alla prevalenza del primo si è sostituita quella del secondo, intorno al quale oggi si raccoglie, nella opinione pubblica del Nord America come in Europa, un vasto settore sovranista e populista. Anche le varie istanze del cosiddetto ‘mondo cattolico’ più che concorrere a strutturare il dibattito pubblico ne subiscono le linee di frattura. Non basta biasimare la gran quantità di concittadini prigionieri di una rappresentazione falsa del fenomeno migratorio (come segnala anche uno studio recente dell’Istituto Cattaneo). Ci si illude, infatti, se si pensa che le analisi scientifiche da sole possano spostare gli umori prevalenti nell’opinione pubblica. Perché prenda forma una alternativa al ‘fuori tutti’ è necessario che maturi e sia condiviso un orientamento generale diverso: consistente sul piano degli argomenti e condiviso anche dai non esperti. È in questa direzione che vorrei provare ad offrire un contributo.

Chi si oppone alla prospettiva sovranista e populista del ‘fuori tutti’ dovrebbe riconoscere che per tutte le società libere dell’occidente, e soprattutto per l’Italia, flussi migratori con dimensioni e caratteristiche di quelli attuali rappresentano anche un serio problema e comportano rischi. Naturalmente le migrazioni rappresentano anche e soprattutto una grande opportunità (demografica, economica, culturale, ecc.), ma una lunga sottovalutazione dei rischi (operata dal fronte del ‘dentro tutti’) e una rinuncia (interessata) a governare il fenomeno (realizzata con la ‘clandestinizzazione’ di tutti i profughi e migranti frutto della legge Bossi-Fini) ha fatto sì che i rischi crescessero e che le opportunità non fossero percepite e andassero in gran parte sprecate, dando spazio alla retorica del ‘quanto ci costano’ i migranti. Informare correttamente, fare assistenza, adeguare le politiche di integrazione è necessario, ma bisogna prendere atto che non è più sufficiente, visti gli attuali livelli di paura e rabbia. La paura e la rabbia (per di più fomentate e strumentalizzate) sono ostacoli enormi al diffondersi di informazioni corrette e al formarsi del consenso di cui in democrazia le buone politiche di accoglienza, assistenza e integrazione hanno bisogno per affermarsi.

Ci si deve perciò concentrare sul consenso che va gonfiando le vele al partito del ‘fuori tutti’ per sfidarlo con una alternativa efficace. In breve, ci si deve chiedere se è possibile contrapporre al ‘fuori tutti’ una soluzione diversa, migliore e più efficace (che non sia quella del ‘dentro tutti’)? E ancora: se è possibile rendere questa alternativa al ‘fuori tutti’ comunicabile e condivisibile da una parte importante e potenzialmente maggioritaria della opinione pubblica? Per tentare di elaborare una alternativa al ‘fuori tutti’ è necessario riconoscere e rispettare (non assecondare) la paura e la rabbia (non importa quanto fondate) con cui la maggior parte dell’opinione pubblica occidentale e anche italiana vive oggi il problema delle migrazioni (tra l’altro sullo sfondo di anni di crisi economica e sociale). Paura fisica e rabbia costituiscono ormai una parte del problema. Ignorarle, porta alla sconfitta anche le proposte più serie e più aperte. Paura fisica e rabbia sono però anche una traccia. Esse rimandano alla questione della forza e del suo uso pubblico. Rimandano alla forza da cui ci si sente minacciati e a quella che vorremmo ci proteggesse.

Allora però, se di forza si tratta, vuol dire che si tratta di politica: qui sta il punto. Si deve cioè riconoscere che in questo momento il problema delle migrazioni costituisce anche (certamente non solo) un problema di ordine pubblico: ovvero un tipo di problema che (anche) per il magistero sociale della Chiesa cattolica interpella la funzione specifica della politica. Per tale magistero, infatti, la politica è chiamata a contribuire al Bene comune (che non è impresa solo politica!) garantendo e implementando l’ordine pubblico (nel senso proprio del termine: diritti fondamentali, civilizzazione – non negazione – del conflitto, moralità pubblica). Per dimensioni e caratteristiche, i flussi migratori sono ormai e saranno a lungo anche (e non solo) una questione di ordine pubblico. Solamente a partire dal riconoscimento di questo dato si può tentare di costruire una alternativa al ‘fuori tutti’. Non si può escludere a priori che si possano dare circostanze nelle quali è giustificato il ricorso alla forza, in modo proporzionato e responsabile, entro i limiti della legge e del diritto. Così, per un verso si prendono le distanze dal fronte del ‘dentro tutti’ (che questa dimensione del problema ha trascurato e a volte negato) e si porta la sfida al cuore del programma sovranista e populista del ‘fuori tutti’, evitando che sia solo esso a promettere una risposta al senso di insicurezza. Questo ci conduce alla seconda domanda: siamo in grado di individuare un paradigma di risposte alla domanda di sicurezza diverso, migliore e più efficace di quello del fronte del ‘fuori tutti’?

Dove innanzitutto i sovranisti vogliono applicare la forza fisica legittima lo si sa: ai confini. Per il paradigma della sovranità (il paradigma della polis), la politica dovrebbe essere lo scatolone che racchiude l’intera società. Al senso di insicurezza il sovranismo risponde promettendo di chiudere i confini. Poco importa che oggi si viva in un mondo in cui i confini materiali sono impossibili (grazie a Dio: perché dal crollo dei confini fisici dipende gran parte del benessere e della libertà). Tuttavia, nella cultura diffusa in tutta l’Europa continentale pesano quattro secoli e mezzo nel corso dei quali (sino alla metà del ’900) i confini ci sono effettivamente stati. Inoltre, mentre oggi non sono più vive le generazioni che della logica dei confini hanno sopportato i costi terribili, i confini sopravvivono come mito di sicurezza (e di identità, di cui merita trattare a parte).

Dove, invece, se non innanzitutto ai confini, si può garantire la sicurezza? Diversamente da ciò che promettono sovranisti e populisti, secondo il paradigma alternativo, quello della civitas, la sicurezza si può garantire in modo migliore e più efficace innanzitutto garantendo strade e piazze sicure. Strade e piazze: ovvero qualsiasi spazio pubblico (reale o virtuale) di transito, scambio e incontro di persone, conoscenze e cose. Secondo il paradigma della civitas i poteri politici ordinariamente non hanno il diritto di escludere o imprigionare alcuna persona in una qualsiasi area dalla vita sociale: non hanno il diritto di ‘chiudere i confini’ e ‘alzare muri’. Al contrario, hanno innanzitutto il dovere di sanzionare (tempestivamente e se serve severamente, senza riguardo al ‘colore della pelle’) ogni comportamento che nelle strade e nelle piazze violi le leggi a tutela dell’ordine pubblico. In una civitas anche il processo di identificazione e controllo che può avvenire ai confini ha la sua ragione prima nell’accertamento della capacità del singolo di essere chiamato a rispondere di suoi eventuali comportamenti che mettessero a repentaglio l’ordine pubblico e nella protezione di questo. Nella prospettiva della civitas, la terra non è proprietà dello Stato (è ‘di Dio’, ‘dell’intera umanità’, ecc.). La libertà di movimento è un diritto fondamentale di ogni persona e neppure la distinzione tra richiedenti asilo e migranti economici può essere assolutizzata.

Questa diversa idea di politica, poi, include quella di poteri politici (tanti, mai uno solo) capaci, cooperando o in competizione, di mantenere strade e piazze sicure ovunque, non solo ‘a casa propria’. Di qui, tra l’altro, nasce il programma di internazionalismo liberale e democratico che, con prudenza e realismo, personalità come Wilson e Sturzo cominciarono a elaborare e perseguire all’indomani della Prima guerra mondiale. Di questo orientamento l’Unione Europea (nella misura in cui si è mantenuta fedele al disegno di De Gasperi, Adenauer e Schumann) è uno dei frutti più alti ed è grazie alla Ue che, dopo secoli, in una così gran parte del continente possiamo godere di una sicura, propizia e attrattiva libertà di circolazione. Se cediamo all’idea di chiudere i confini, in realtà ci condanniamo a rimanere prigionieri e isolati, con costi inimmaginabili e di ogni tipo. In un mondo nel quale la connessione di tutti con tutti, per tempo riconosciuta dal Vaticano II e da Paolo VI come «segno dei tempi», è divenuta realtà, la rabbia e la paura possono essere strumentalizzate da una politica (quella della polis) che tenta di ricostruire il proprio strapotere promettendo confini di nuovo chiusi. A questa politica può opporsi un’altra politica (quella della civitas) che usa della forza fisica legittima per mantenere innanzitutto ovunque strade e piazze sicure. È a fianco di questa politica che può crescere e trovare consenso democratico anche tutto il resto, davvero tanto (assistenza, inclusione sociale ed economica, valorizzazione di talenti e competenze, ecc.), di ciò che serve ad affrontare il nuovo, grande e non certo episodico fenomeno migratorio.

Luca Diotallevi

Avvenire.it, 4 settembre 2018

https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/non-servono-confini-chiusi-ma-strade-e-piazze-sicure