Signor arcivescovo McCarrick, credo che ormai lei sappia come, a causa della sua incredibile condotta morale, tantissimi cristiani stanno soffrendo in ogni parte del mondo. Sono un povero prete italiano. Un prete che sa di non essere migliore di nessuno; che considera gli scandali che da duemila anni accompagnano, assieme alla santità, la sposa di Cristo, una prova della sua origine soprannaturale. Un prete che, in questi giorni, non può che desiderare di rimanere accanto a papa Francesco, sotto la croce, «per completare ciò che manca alle sofferenze di Cristo». Un prete che non si vergogna, oggi come ieri, di indossare il clergyman, pur sapendo – come già è avvenuto a lui e ad altri confratelli – di poter essere apostrofato e deriso per la strada. Insulti che, purtroppo, non gli vengono per la sua fedeltà al Vangelo, ma a causa di orribili scandali venuti a galla. Tra questi, tra i più dolorosi, c’è il suo.
Non è mia intenzione ergermi a giudice di nessuno. Ognuno è responsabile della propria vita, davanti a Dio e all’umanità. E deve accertarsi che le sue parole, le sue azioni, le sue prese di posizione non vadano a pesare sugli altri. Lei sapeva, e sa bene, che tutto ciò che prendiamo in più per noi, in modo truffaldino, lo facciamo pagare con gli interessi agli altri. Tutto, non solo beni materiali, ma dignità, serenità, speranza, fede. Ho detto fede, signor arcivescovo, e mi sono accorto che mi tremano le mani e gli occhi si arrossano. Penso alla fede dei miei bambini. Sto per andare a confessarne un piccolo gruppo per la Prima Comunione. Penso alla fede della mia gente, gente semplice, povera, disoccupata, che, sovente, non sa parlare nemmeno perfettamente l’italiano. Penso ai carcerati dai quali mi reco spesso; agli ammalati in fase terminale che trovano conforto nello stringere tra le mani il crocifisso o piangere sulla spalla del loro prete.
«Lo scandalo che da lei mi proviene mi ha ferito l’anima nel vivo, alla radice stessa della speranza», scriveva Georges Bernanos. Quanto prezioso tempo perduto. Quante chiacchiere dannose sparse per il mondo. Quanto fango schizzato sui colpevoli, e, purtroppo, sugli innocenti. Quanta fatica per riprendere il cammino. La Chiesa non è fatta solo da chi scrive sui giornali, a favore o contro il Papa. La Chiesa non è solo il Vaticano o le Conferenze episcopali. La Chiesa è un mistero immenso, di cui mai ci si renderà completamente conto, un popolo incredibile di esseri umani impastati col sangue di Cristo. Un popolo che sta soffrendo, signor arcivescovo. Anche a causa sua.
I poveri, i semplici, i piccoli sono convinti che coloro che stanno più in alto siano anche i migliori, in tutti i sensi. Gli scaltri sanno che non sempre è così. I semplici no, hanno bisogno di fidarsi, e anche di aggrapparsi alla veste di chi li guida spiritualmente.
E continuano a credere nei loro preti, nei loro vescovi, nei cardinali che eleggono il Papa. Volentieri stringono e persino baciano le loro mani. Mani consacrate, mani di Cristo. Loro vedono nel Papa il vicario di Cristo in terra e impazziscono di gioia se solo riescono a sfiorare il ‘lembo del mantello’. E non gli toccate il Papa, non gli toccate la Chiesa. Non derubateli di ciò che di più bello, più prezioso hanno in questo mondo che non sempre gli è amico. E lei, signor arcivescovo, col suo comportamento ha invece agevolato chi vuol attaccare papa Francesco e i suoi immediati predecessori. «Tu non sai cosa sia l’aver creduto alla menzogna», scriveva padre David Maria Turoldo. Le persone illuse e poi deluse, dal marito, dalla moglie, dal figlio, dal parroco, dal governo, fanno una grande tenerezza. Lei conosceva benissimo, signor arcivescovo, i suoi limiti, le sue tendenze, i suoi approcci, le sue passioni. Avrebbe potuto andare per la sua strada. Il mondo è largo e lungo, c’è spazio per tutti.
Sapendo di se stesso cose che gli altri non potevano sapere, avrebbe dovuto – per coscienza, per timor di Dio o, almeno, per una umana scaltrezza – rifiutare di salire tanto in alto. Don Primo Mazzolari, prete italiano, vanto della Chiesa e dell’umanità ha scritto: «L’autorità è vera autorità quando prende in mano l’uomo qual è e lo aiuta a diventare quale deve essere». Non il contrario. Serve, oggi, piangere sul latte versato? Sì, serve, eccome. Le lacrime fanno sempre bene. Serve per lei, ormai vicino al giorno che tutti ci attende. Per dirle che tanti cristiani stanno pregando per la sua conversione, la sua salvezza eterna. Per dirle di resistere alla tentazione della disperazione e dello scetticismo. E per trovare la forza di stare nella verità. Serve alle anime striminzite di quei preti che nella Chiesa hanno visto, e forse continuano a vedere, la possibilità di emergere dalla propria mediocrità mediante una ‘brillante carriera’; o che ancora si fanno ingannare dal denaro, dagli onori, dal successo. Che dimenticano che il colore ‘rosso cardinale’ delle vesti che i principi della Chiesa indossano, non è motivo di orgoglio o vanità, ma richiamo al martirio.
Signor arcivescovo questo povero prete, la prega di chiedere pubblicamente perdono. Alle sue vittime, innanzitutto. E, subito dopo, al Santo Padre e alla Chiesa diffusa sulla terra, in particolare ai poveri, ai piccoli, ai semplici. Perché, come scrive Bernanos, «la Chiesa dispone della gioia, di tutta la parte di gioia riservata a questo nostro triste mondo. Quel che fate contro di essa lo fate contro la gioia». Che responsabilità. Vengono le vertigini al solo pensarci. Siamo chiamati – tutti: laici, clero e anime consacrate – a essere seminatori di speranza, non rapinatori di gioia.
Maurizio Patriciello
Avvenire.it, 4 settembre 2018
https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/chieda-perdono