Dal 10 al 12 settembre i preti dell’arcidiocesi di Bologna si sono dati appuntamento in seminario per la tradizionale “Tre giorni del clero”. Sono intervenuti don Ezio Bolis, direttore della Fondazione Giovanni XXIII di Bergamo; Luciano Monari, vescovo emerito di Brescia; Mauro Magatti, professore di Sociologia della globalizzazione presso l’Università cattolica del Sacro Cuore); don Antonio Torresin, parroco nella diocesi di Milano, incaricato della formazione dei preti giovani. Altri incaricati degli uffici pastorali della diocesi sono intervenuti per dare corpo alla fase assembleare dell’incontro. L’arcivescovo Matteo Maria Zuppi è stato presente ad ogni passaggio.
Se, come è successo in questi tre giorni a Bologna, i preti di una diocesi si ritrovano a riflettere sul proprio ministero, si sentono dire che il mondo è profondamente cambiato negli ultimi trent’anni e che fare il prete è diventato più difficile, per non dire “impossibile”. Ma può essere bellissimo.
Purché si accetti realisticamente di ripensare con altrettanta profondità il proprio ministero, anziché insistere a sgridare il mondo perché torni ad essere quello rassicurante nel quale per secoli il clero tridentino si era trovato a proprio agio, anzi “agevolato”.
Sorprendente – e probabilmente non programmata – la sintonia tra l’approccio spirituale della prima giornata e quello antropologico e teologico della seconda: fare il prete e crescere nella santità è difficile, ma, se il percorso è genuino, alimenta la gioia in sé e nel mondo circostante.
Società della tecnica
Il 1989 europeo ha siglato il tracollo definitivo dell’utopia consegnata alla politica: ideologie e progetti di progresso hanno svelato la faccia nascosta; “divinità” che hanno divorato i propri figli senza restituire il benessere universale promesso.
Ma l’uomo, per sua natura, non sa rinunciare ai miti e, bandite le ideologie, ha trovato buon terreno il mito della tecnica che, a partire dalla fine del secolo scorso, «ha affondato le sue radici e ha riempito la terra» (citazione maldestra del Sal 80[79]).
Non servono sforzi di fantasia per immaginarsi nel mondo come all’interno di un edificio, opera delle mani dell’uomo. L’orizzonte dell’universo coincide con l’orizzonte della competenza della tecnica, dal subatomico all’astronomico; dall’archivio delle memorie alla previsione del futuro affidata agli algoritmi. Non si dà più un “oltre” che non possa essere ricondotto dentro l’“edificio” umano.
Il termine salus esce dal vocabolario soteriologico per entrare nella vasta enciclopedia della salute. L’uomo è pensato come un insieme “macchinoso” di pezzi, non solo organici ma anche “spirituali” e perfino virtuali. Articolazione di “pezzi” sofisticati sì, ma riparabili e sostituibili.
L’universo è per intero posto sotto i piedi dell’uomo, anzi nelle sue mani, non per la consegna di un Creatore, come inneggia il Salmo 8, ma per conquista progressiva e sempre più veloce della scienza e della tecnica. È solo questione di tempo, promette la nuova mitologia, e anche la morte sarà sconfitta.
Una conferma a contrario: ogni evento che smentisce la promessa è immediatamente interpretato come deficit tecnico, effetto di un mancato intervento umano. Anche davanti al cataclisma, partono le indagini sulle responsabilità, sulle omissioni, sulle competenze incompetenti. Dio “si salva” dalle accuse, la teodicea non deve più scomodarsi perché, se tutto è nelle mani dell’uomo, ci sarà sempre un uomo responsabile – almeno in parte – di quanto accade. Se non altro perché non era stato previsto.
È l’uomo a non “salvarsi” più. La drammatica crisi finanziaria del 2008 (ricorre proprio in questi giorni il decimo anniversario dell’innesco emblematico segnato dalla bancarotta di Lehman Brothers) ha aperto la crepa sulla fragilità del moloch, ma è stata digerita come un “inceppo” che non ha compromesso la fiducia nel mito.
In questo contesto mitologico e simbolico totipotente la religione è stata esonerata dal suo ruolo in ordine alla salvezza. Le analisi del Pew Research Center ribadiscono ogni anno che in Europa, più ancora che nel resto dell’Occidente, la secolarizzazione ha superato la “soglia di non ritorno” soprattutto fra la popolazione dei millenials. I quali non si proclamano né atei né agnostici, ma semplicemente alla domanda sulla religione rispondono con un’altra: “di cosa stiamo parlando?”.
Anche il profeta e il sacerdote…
In questo paesaggio modificato nel profondo, si comprende lo “spaesamento” di chi si muove con aspettative missionarie, con il mandato di annunciare che «in nessun altro vi è salvezza sotto il cielo, se non in Gesù Cristo» (cf. At 4,12). «Anche il profeta e il sacerdote si aggirano per la regione senza comprendere» (Ger 14,18).
Formato nel solco di una tradizione secolare, la cui inerzia perdura nella forma del seminario, il prete si addentra in un mondo che gli appare deserto arido e impermeabile, peggio che ostile. Lo spaesamento non è solo del prete, ma esperienza globale di un popolo sradicato che non sa più dove andare; sa solo che deve correre. Forte di un’identità teologica ritrovata, vulnerabile per le condizioni del ministero nelle quali spenderla. Le tentazioni della tristezza e della disillusione incombono su di lui e lo dispongono ad ascoltare il canto delle sirene securizzanti.
Come l’“opzione Benedetto”, tentazione aventiniana che suggerisce di costruire monasteri nei quali rifugiarsi in attesa che il mondo cambi. Ma se il cristianesimo rinuncia a stare dentro la storia perde se stesso. E i suoi ministri. La Pentecoste invece non ripristina l’antica Babele riportando tutti a parlare la medesima lingua, ma abilita a farsi comprendere nelle diverse lingue, cioè nei diversi modi di comprendere il mondo.
La tentazione di restare chiusi nel Cenacolo anche dopo l’effusione irruenta dello Spirito. Tenersi la Pentecoste per sé, immaginando possibile la vita nuova per sé, una santità per sé che non sia nello stesso tempo vita e santità, salvezza e risurrezione per il mondo. Mettere al sicuro se stessi rinunciando ad essere ministri della libertà della grazia. «Libertà e sicurezza costituiscono una polarità fondamentale per gli equilibri di una società. La domanda di sicurezza esprime il bisogno di proteggersi dai pericoli del mondo circostante. Obiettivo che porta a cercare di tenere sotto controllo la realtà, ivi compresa la libertà. Quest’ultima, a sua volta, accresce la contingenza; più opportunità e autodeterminazione implicano maggiori rischi e insicurezze», scriveva Mauro Magatti sul Corriere della sera (p. 28) il giorno prima del suo intervento all’evento bolognese (10.9.18).
Il prete sarà santo se in un mondo incerto e confuso, perciò esposto alla tentazione securista, saprà educare alla libertà. Una libertà che oggi si declina come sbilanciamento al di fuori di sé e verso un “oltre” delle cose, del tempo, nelle relazioni. La fede è possibile se lascia il guscio dell’adesione a verità rassicuranti per giocarsi nell’affidamento, consapevoli che questo universo totalizzante non basta a se stesso, questa mia vita non basta a se stessa.
Sbilanciamento “fiducioso” (cioè nella fede) è saper attraversare, non da soli ma come Chiesa, i luoghi della precarietà. In particolare due.
1) La preghiera – che condivide la radice etimologica della precarietà – come apertura al mistero, affidamento a Qualcuno sul quale si proietta il baricentro della propria esistenza.
2) La carità come ricupero di quella sempre più ampia quota di umanità che la società della tecnica, società degli “scarti”, butta via.
Le vie, i modelli e le forme
La gioia – cifra del magistero di papa Francesco – è un dono e una virtù, da invocare e da coltivare, grazia e ascesi, preghiera e carità. Nel mondo che abbiamo descritto, è mai possibile una santità gioiosa per il prete? Non al di fuori di un esercizio sapiente del proprio ministero. L’esortazione Gaudete et exsultate ne traccia le vie per tutti i battezzati, anche per il prete.
Scoprire il bene ovunque si manifesti, consapevoli che lo Spirito precede sempre l’evangelizzatore e che si tratta di farsi sacramento di una “santità ospitale” come quella incarnata da Gesù, che creava nell’incontro lo spazio perché fiorisse il meglio di entrambi: «la “tua” fede ti ha salvato». Coltivare uno sguardo contemplativo e accogliente, sul mondo, sulle persone, sulle vicende. Crescere nella pazienza, rinunciando alla tentazione diffusa e disumanizzante del “tutto subito” e vivendo lo stile opposto della gratuità. Trovare libertà non nell’accumulo che promette autonomia, ma nella povertà dell’essenziale; non solo quanto all’avere ma anche quanto al fare: fare meno per imparare a fare meglio e insieme, dire dei no, accettare di deludere… Assaporare la grazia della fraternità.
I modelli di ministero del passato sono semplicemente improponibili. Senza perderne la dimensione teologica ed ecclesiale, occorre riscriverli.
Il missionario: colui che porta e però riceve. Andare alla missione non con “bastimenti carichi di”, ma con lo zaino alleggerito (prima che qualcuno derubi “provvidenzialmente” il superfluo!).
Il pastore: educa e viene educato, ha una meta da indicare al vagare di un’epoca incerta, ma sa di non poterla raggiungere in solitaria. Opera per l’unità multiforme, consapevole che solo insieme se ne esce.
Il profeta: accetta l’incomprensione e perfino il rifiuto, non dall’alto di una presunta superiorità morale, ma dalla semplice consapevolezza di essere custode di una differenza, di un di più, di un oltre.
Il sacerdote: vive l’intera esistenza, non solo il ministero, come “sacrificio spirituale”, offerta di sé, fino a perdere la propria vita perché un altro viva.
Il cattolicesimo – a differenza di altre confessioni cristiane – ha sempre mostrato nella storia la genialità delle forme, la capacità di reinventare i modi ancorando la sostanza. Genio che è opera dello Spirito e non v’è chi non veda che i suoi frutti sono amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza… Non è di questo che abbiamo parlato?
Marcello Mattè
14 settembre 2018
http://www.settimananews.it/ministeri-carismi/ministero-del-prete-bello-impossibile/