Gentile direttore, mi sono laureato in Medicina un anno fa e lo scorso luglio ho svolto il test per la specialità, che mi ha lasciato molte incertezze. In un mondo in cui con un semplice “click” si può trovare di tutto su una patologia, sembrerebbe che l’unica richiesta fatta dallo Stato ai giovani medici sia di essere dispensatori di diagnosi. L’unica capacità valutata da questo test è quella di scegliere la migliore alternativa tra cinque opzioni, basandoci su scarse informazioni. In questo arido giudizio delle nostre capacità di medici, c’è ancora spazio per l’empatia? È ancora un valore aggiunto il desiderio di curare la persona anziché solo la malattia? Marco Lippolis
Finché costringeremo i giovani medici – e, prima ancora, i giovani che aspirano a studiare Medicina – a farsi con amarezza domande come le sue, gentile e caro dottor Lippolis, temo che la risposta sembrerà inclinare inesorabilmente al negativo. Ecco perché bisogna impegnarsi per interrompere la corsa su questa china, lungo la quale si spersonalizza la cura e si circoscrive in modo meramente strumentale la relazione paziente-medico. Con la prospettiva per un verso di burocratizzarla e – proprio come lei dice – di inaridirla sempre più e, per un altro verso, di irrigidire sino al conflitto delle volontà e persino delle (vere e presunte) competenze il rapporto tra camici bianchi e le persone ammalate e disabili e/o i loro cari.
È possibile la svolta, e il recupero “personalista”, che lei desidera proprio come me? Certo che lo è. Conosco medici, uomini e donne, con la sua stessa passione e determinazione. E continuo a constatare che non sono disposti ad abbandonarsi all’onda montante. La sua pacata e aperta protesta conforta la mia opinione. Custodisca questo piccolo grande tesoro, quale che sia l’esito del suo test per la specialità, e lo investa bene. Non c’è solo la tecnica, c’è lo spirito che ci anima nell’usarla. E c’è la fede, la fiducia-fides, la “cordicella” che ci lega (se siamo aperti e onesti) alle persone che incontriamo, che dà senso e forza alle nostre azioni e alle nostre interazioni. Del resto, i nostri vecchi l’avevano scoperto e detto con saggezza semplice, in ogni campo dell’umano “nel più ci sta il meno”.
Potremmo declinare il concetto così: curando tutta la persona si può arrivare a frenare e vincere anche la malattia. È la via – io lo credo fermamente – per frenare e vincere anche la grande malattia dei nostri tempi, che è quella di considerare l’empatia con l’altro malato, povero, estraneo, differente… un “lusso” che non ci possiamo più permettere. Sebbene tutte quelle condizioni – la malattia, la penuria di mezzi, l’estraneità, la diversità… – sono proprie dell’umano e, in tempi e circostanze quasi mai prevedibili, possono riguardare ognuno di noi e le reti familiari, di amicizia e di cittadinanza di cui siamo parte. Lei dimostra di averlo chiaro. Le auguro un esercizio lungo e buono dell’«arte» a cui ha deciso di dedicarsi e, per questo, la ringrazio.
Marco Tarquinio
Avvenire.it, 15 settembre 2018
https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/il-valore-della-cura