Cosa scatena nei teenager quel senso di vuoto, quella necessità di sentirsi invincibili per apparire più forti degli altri?
Sfida del “blackout”, Bluewhale, Tide Pods ed eraser challlenge, passando per i “selfie estremi“. Sono solo alcune delle sfide o “prove di coraggio” che si diffondono a macchia d’olio sul web e che sempre più adolescenti scelgono di mettere in atto, spesso a discapito della loro stessa vita. Il tutto viene documentato con un video o con una foto e poi diffuso sui social. L’obiettivo? Dimostrare a una cerchia “ristretta” di amici che non si ha paura, arrivando a sfidare anche la morte. Ma cosa scatena nei giovani quel senso di vuoto, quella necessità di sentirsi invincibili per apparire più forti degli altri? La professoressa Anna Maria Giannini – Ordinaria presso la Facoltà di Psicologia 2 e coordinatrice e responsabile del Laboratorio di Psicologia Sperimentale applicata, Dipartimento di Psicologia, “Sapienza” Università di Roma – punta il dito contro la cosiddetta “società della fretta”, caratterizzata da comunicazione affrettate, con la predilezione per i social e dove tutto è “veloce e lontano dall’approfondimento”. In Terris l’ha intervistata.
La vicenda del giovane morto a Milano mentre s scattava un selfie sul tetto di un centro commerciale ha riaperto la discussione sulle sfide social. Davvero l’effimera notorietà derivante da un gesto estremo postato online sta diventando più importante della vita stessa?
“Queste pratiche vengono percepite come vere e proprie prove, un modo di comunicare agli altri adolescenti. La persona che mette in atto la sfida pensa di suscitare nei confronti degli amici e dei compagni un senso di ammirazione, dimostrando che non ha paura nemmeno della morte. Per loro non si tratta di un’effimera notorietà di breve durata, bensì qualcosa che ha profondamente a che fare con il loro senso di identità. Per questo pongono in essere questi meccanismi “.
Questa storia arriva a pochi giorni da quella, terribile, del 14enne morto per asfissia per rispondere ad un altro challenge proposto sul web e nell’anno in cui è esploso il bluewhale. E’ lecito parlare di allarme?
“Io non parlerei proprio di allarme, perché a questo termine viene normalmente o frequentemente data una connotazione diversa. Sono fenomeni diversi seppur riconducibili alla stessa logica. Quello che è sicuramente evidente è che esistono meccanismi con cui gli adolescenti sfidano ogni pericolo, si mettono in mostra, avendo a disposizione una platea ampia perché purtroppo la rete si presta a questo. Una volta si aveva a disposizione un ristretto numero di ‘testimoni’. I social, ora, amplificano moltissimo e quindi rendono ancora più attraente la condotta stessa che assume connotazioni diverse. Il ragazzo sfida il pericolo, fino ad avvicinarsi alla morte, volendo dare proprio l’impressione di non avere paura, di noncuranza rispetto alla possibilità di morire e quindi di essere forte e coraggioso. Naturalmente queste cose vengono fatte di nascosto dagli adulti, sono logiche che si sviluppano proprio nella ‘ristretta’ cerchia dei gruppi sui social da loro condivisi ed è molto complesso per gli adulti venirne a conoscenza”.
Questi fenomeni sembrano coinvolgere ragazzi all’apparenza privi di problemi oggettivi. Esistono delle forme di disagio ancora invisibili?
“Dobbiamo specificare che queste non sono condotte a intento suicidario. I ragazzi le mettono in essere sperando e ben convinti di potercela fare, non credendo di perdere la vita. Poi qualcosa sfugge di mano. Il giovane che è salito in cima a una struttura per farsi un selfie non pensava di cadere di sotto e morire, lui probabilmente sperava di riuscire a dare la prova di coraggio e di tornare illeso. Non sono condotte né depressive né suicidarie. Nel caso dei challenge, non si può parlare di condotta suicidaria, ha un carattere diverso. Se poi vogliamo riflettere sul disagio che c’è in senso generale, uno si può chiedere se arrivare a tali comportamenti per essere accettati dal gruppo non esprima degli elementi di disagio, connotandolo in termini sociali, di rapporto, di dialogo, di capacità dell’adolescente di costruire un’identità matura senza passare attraverso queste sfide. Se invece per disagio vogliamo intendere proprio un quadro patologico, dobbiamo dire che spesso è assente”.
L’innovazione – pensiamo agli smartphone e al tablet – ha creato nuove forme di dipendenza. Tenere tra le proprie mani un dispositivo con il quale è possibile fare praticamente tutto può generare una sorta di autoisolamento che può danneggiare le menti più deboli?
“Penso che i dispositivi così come la rete non vadano demonizzati di per sé. Avere a disposizione un computer o un tablet o uno smartphone non genera una patologia o forma di isolamento connessa allo strumento. Semmai il contrario. Le persone che vanno incontro a problemi di isolamento per altre ragioni, trovano in questi dispositivi un metodo per realizzarlo. Io posso stabilire dei contatti sociali con persone che non sono presenti, ma con via Snapchat, Instagram, Facebook, Telegram…. e, probabilmente, li utilizzo se ho difficoltà nei rapporti diretti. Però, ripeto, non è lo strumento che genera la patologia, altrimenti dovrebbero averla tutti”.
Esistono dei percorsi terapeutici per queste dipendenze?
“Ci sono percorsi psicoterapeutici individuali e di gruppo. Ormai dappertutto ci sono centri specializzati per le dipendenze in generale, ma anche per quelle dalla rete o dallo smartphone. Ci sono persone che non riescono a separarsi dal telefonino, addirittura fino a sentirsi male se non lo hanno a disposizione. Queste patologie sono ampiamente curabili”.
Essendo forme patologiche relativamente nuove, quali segnali sono chiamati a notare genitori e insegnanti per capire che qualcosa non va?
“I segnali tipici sono cambiamenti repentini di comportamento, isolarsi ancora di più, rifiutarsi di porre in essere dei comportamenti che prima erano abituali. Io credo che occorra fare molta prevenzione, altrimenti si rischia di caricare insegnanti e genitori di un compito molto arduo: scovare segnali che molto spesso non sono individuabili. Quello che è importante è un’opportuna strategia di prevenzione che veda la sinergia tra inseganti, scuola, genitori e le agenzie locative che oggi sono attive. Ad esempio, la Polizia Postale lavora molto per fare formazione nelle scuole e coadiuvare chi la fa. Occorre aprire un dialogo per operare quel tipo di capovolgimento che è fondamentale per far capire ai ragazzi che non si tratta di un’azione di coraggio, bensì di viltà. Ecco, questo con la formazione è un messaggio che può passare”.
Queste sfide e prove di coraggio che i giovani mettono in atto, possono essere una conseguenza della perdita dei valori nell’ambito familiare e sociale?
“Sì. Questi sono gli effetti della cosiddetta ‘società della fretta’, in cui la comunicazione è affrettata, le persone difficilmente leggono un libro o un quotidiano. Rispondono velocemente ai messaggi. Ormai le logiche di comunicazione sono Whatsapp, i social, quindi tutto molto veloce e lontano dall’approfondimento. Spesso c’è un allontanamento anche dai valori, perché le persone stanno poco insieme, coltivano poco degli obiettivi e degli ideali comuni, questo crea profonda solitudine e necessità di reperire nuovi valori. Sì, sicuramente ci dovrebbe essere una riflessione più profonda su che cosa veramente – da un punto di vista delle famiglie, della scuola e della società in genere – stiamo dando agli adolescenti. Se io devo cercare la mia identità provando a soffocarmi e resistere fino al punto in cui svengo e poi non avere più la possibilità di intervenire per salvarmi la vita, evidentemente non sono riuscito a trovare altri modi per dimostrare il mio coraggio, per aiutare gli altri, credere nella cooperazione, nella solidarietà, di intravedere il coraggio nell’esporsi a difesa di un compagno che viene maltrattato, credere in ideali sociali o religiosi. Se tutto ciò manca è chiaro che poi scattano questi meccanismi”.
Manuela Petrini
18 settembre 2018
https://www.interris.it/sociale/perch-i-giovani-rischiano-la-vita-per-un-selfie