Nadia Toffa, una delle “Iene”, ha voluto condividere sui social la grave patologia da cui fu assalita lo scorso inverno: un cancro. Il 9 ottobre uscirà il libro “Fiorire d’inverno – La mia storia” dove racconterà il suo viaggio nella malattia. E’ già stata diffusa la presentazione nella quale è presente una frase che fa molto discutere: “Ecco qui, ragazzi, in questo libro vi spiego come sono riuscita a trasformare quello che tutti considerano una sfiga, il cancro, in un dono, un’occasione, una opportunità”.
Di fronte a questa espressione, tenterò di “balbettare” qualche cosa su questo tema riferendomi ai volti delle centinaia di malati che ho incontrato in trent’anni di cappellano ospedaliero. Il mio sarà unicamente un “balbettare” perché come ricordò Carlo Bo: “non c’è una letteratura della sofferenza, ci sono solo dei gridi” (Scandalo della speranza), e, i “gridi”, non si spiegano, solo si ascoltano! Tutto questo con l’ obiettivo di aiutare noi sani a non fuggire da questo interrogativo e il malato a trovare una consolazione.
Un proverbio arabo afferma: “Non c’è nulla di più scontato dell’aria ma guai a non respirarla”. Lo stesso possiamo asserire per la malattia essendo un evento che senz’altro, prima o poi, si presenterà nella vita indipendentemente dalle convinzioni religiose o filosofiche, anche se rimane “fuori” dai nostri programmi. Pur comprendendo il timore che la tematica suscita e le ragioni psicologiche che ci inducono ad allontanarla dalla quotidianità, isolandola in angoli remoti, ritengo come affermava lo psichiatra viennese V. Frank che “vivere è sofferenza, sopravvivere è trovare il valore a queste sofferenze; cioè il senso della vita deve anche comprendere la sofferenza” (Un significato per l’esistenza. Psicoterapia e umanesimo). Dunque, chi anela a vivere pienamente e totalmente la sua esistenza, superando il cosiddetto “male di vivere”, cioè la profonda insoddisfazione che molti sperimentano nello scorrere dei giorni, deve scovare delle risposte anche se attualmente gode ottima salute.
Ognuno di fronte alla malattia ricerca delle risposte: il credente a volte ritiene Dio erroneamente il responsabile della sua sofferenza: “Perché Dio mi ha punito in questo modo”; l’ateo strumentalizza il dolore come prova per dimostrare la non esistenza di un Assoluto; altri tentano di ridurre la malattia a puro fenomeno clinico o di ordine tecnico che investe unicamente il corpo.
Tra i tanti punti di riferimento di fronte al dolore umano mi soffermerò su quello esposto dal cristianesimo essendo stato un “punto di luce” per i drammi di milioni di uomini nel corso di duemila anni di storia. E’ opportuno però, superare uno stereotipo ancora presente in molti. Il cristianesimo non idealizza la sofferenza poiché non esiste un “dolore positivo”; possiamo rintracciare dei significati ma la malattia è sempre una negatività. Per questo, il Signore Gesù, la combatte come ben evidenziato dai Vangeli.
E, allora, perché a volte il messaggio evangelico non “consola” ma è radice di disperazione? Prevalentemente per l’immagine errata di Dio che ci siamo costruiti, differente da quella presentata dalla Rivelazione e per lo scorretto rapporto tra dolore e punizione divina, sofferenza e colpa. Di conseguenza vari malati si domandano: “Perché Dio mi castiga così?”. Oppure affermano: “Ho vissuto onestamente e oggi sono afflitto da una grave patologia”. Con alcune storture, anche inconsciamente, abbiamo sfruttato Dio ritenendolo uno strumento nelle nostre mani, necessitandoci un Assoluto che risolva i nostri problemi. Invece per la concezione cristiana: Dio è l’onnipotente nell’amore e nell’umiltà, non colui che esaudisce tutte le nostre richieste, ma si schiera a fianco di chi soffre ed invita ciascuno a comprendere, condividere e vivere il dolore umano.
E, tornando all’espressione della Toffa, io la interpreto così. La malattia può essere importante poiché fa riscoprire l’autentico significato della vita e ritrovare valori perduti. Non a caso, tante persone si sono totalmente trasformate a seguito di una malattia; san Francesco d’Assisi e sant’Ignazio di Loyola sono splendidi esempi.
Don Gian Maria Comolli