Mentre nell’Assise sinodale abbondano i contributi importanti, la stampa enfatizza (ovviamente) gli immancabili spunti pruriginosi. Anche a partire dalla strana questione posta da un Anonimo Padre sinodale si possono ripercorrere i tratti essenziali dell’esperienza fondativa dell’essere Chiesa – ciò che in fondo ci vuole tutti giovani e tutti ci fa crescere –; ci lasciamo accompagnare da mons. Emmanuel Gobillard e da don Luigi Giussani.
La prima fase della XV assemblea ordinaria del Sinodo dei Vescovi ora in corso, che ha per tema “i giovani, la fede e il discernimento vocazionale”, ci sta regalando momenti molto alti di testimonianza cristiana: basti ricordare – uno per tutti – il giovane Aziz, iracheno diciottenne nel 2014, quando l’Isis ha portato lo scompiglio nella sua vita costringendolo a fuggire dal Paese natio.
E così il 6 agosto 2014 abbiamo dovuto lasciare la nostra casa, perché siamo stati messi davanti alla scelta se diventare musulmani e pagare un riscatto o essere decapitati.
E il suo racconto era fragrante di autenticità e maturità, nel suo riuscire a non perdersi nella cronaca macabra o pruriginosa, rivolgendosi piuttosto dritto all’essenziale:
Ho capito che se fossi rimasto radicato nella mia sofferenza, non sarebbe cambiato niente e non sarei riuscito andare avanti – ha detto Aziz – Ho pensato a Gesù in croce, quando attraversa quel momento difficile, e ho ricordato quel grido al Padre in cui chiedeva “Perché mi hai abbandonato?”. Mi sentivo impotente, come lui, abbandonato come lui, solo come lui. Allora mi sono affidato completamente a lui e ho deciso di vivere il momento presente per lui. […] I terroristi avevano ucciso gli uomini, violentato le donne. Chi era riuscito a scappare avevan bisogno di essere consolato e per questo c’era bisogno che ognuno mettesse da parte il suo dolore. […] Siamo arrivati il 26 ottobre 2014. Ci sentivamo persone straniere, ma ci hanno accolto e aiutato. Abbiamo sentito che Dio stesso stava lavorando attraverso quelle persone gentili. […] Non sono qui per raccontarvi le cose brutte successe, ma per dirvi che sono stato salvato da Gesù Cristo – ha concluso – Sono convinto che come giovani possiamo fare la differenza che vogliamo vedere nel mondo.
Accanto a questi momenti non sono mancati episodi opachi, come le dispute sulla legittimità dell’uso di espressioni quali “cattolici lgbt”: trovo molto condivisibili le osservazioni critiche mosse a tal proposito dall’arcivescovo di Philadelphia, poiché l’orientamento sessuale non può essere anche per la Chiesa una qualità che definisca sostanzialmente la persona. Del resto rigettiamo ugualmente – almeno su quel piano alto della vita ecclesiale, che è per esempio un sinodo – espressioni come “cattolici di destra” e “cattolici di sinistra”, epiteti politici per antonomasia, che per la loro universale comprensibilità sono ormai invalsi nell’analisi delle cose di chiesa (con la minuscola): ma la Chiesa (con la maiuscola) non si definisce sulla base delle categorie di cui vive l’Occidente negli ultimi tre secoli. Quattro soltanto sono le note autentiche della Chiesa: essa è una, santa, cattolica e apostolica, e tutto quello che – direttamente o indirettamente – giunge a minare una o più di dette note deve essere rigettato senza esitazioni.
Tanto per fare un esempio al limite: qualche ragazzo ha preso la parola dicendo “noi Chiesa giovane”… Ecco, la giovinezza in sé non è un valore, se non altro in quanto non ne abbiamo definito univocamente il significato: parliamo di giovinezza anagrafica? Certamente non è un valore. Giovinezza esistenziale? Se ne può discutere. Giovinezza spirituale? Ne discuteremo. Ma se ad esempio è facile allargare il campo degli attributi della Chiesa con i macarismi evangelici possiamo certamente dire che la Chiesa è (e deve essere) povera, misericordiosa, mite… e ancora parliamo di attributi che hanno invocato una copiosa letteratura per essere definiti. La “Chiesa giovane” è presente in qualche modo nelle allegorie del Pastore di Erma ma dubito che i ventenni presenti al sinodo abbiano in mente la letteratura cristiana antica quando preparano i loro interventi…
E non stiamo qui a fare accademia, il punto non è questo: il problema – tanto più se parliamo di “giovani, fede e discernimento” – è chiarire se la chiesa di cui stiamo parlando merita la lettera maiuscola o può tranquillamente scriversi con la minuscola (e in tal caso chiaramente non dovrebbe essere soggetto/oggetto di un Sinodo).
Penso a una dichiarazione risalente ormai a quattro giorni fa, dal momento che il Prefetto per la Comunicazione Paolo Ruffini la comunicò in sede di conferenza stampa il 5 ottobre:
Ruffini ha informato che «il tema del sesso e della castità pre-matrimoniale, dell’astinenza prima delle nozze» è stato trattato da uno dei padri sinodali, che ha sottolineato come la posizione della Chiesa su questo aspetto pone «due rischi: da una parte rischia di far sposare le coppie prima del tempo di un’adeguata maturazione della loro volontà, dall’altra di provocare un allontanamento dal sacramento di chi non riesce a vivere la vita di coppia senza rapporti sessuali».
Questo padre sinodale, ha precisato Ruffini, «ha voluto spiegare che “questa è un cosa alla quale ci troviamo di fronte”, insomma un tema da tener presente» e «ha detto che rispetto a questo divieto, ci sono ragazzi che “perdiamo per un po’”, alcuni ritornano, altri “li perdiamo per sempre”».
Ci sarebbero molte cose da dire, in proposito, ma cerchiamo di limitarci all’essenziale (nell’auspicio di poter eventualmente essere utili ai lavori sinodali), e proviamo a farlo con due rapide premesse, seguite da una critica e da una proposta più articolate.
Le premesse
Viene da chiedersi chi sia e da dove venga il Padre sinodale che ha esteso questa considerazione, visto che il primo rischio da cui mette in guardia è quello dei matrimoni precoci: ora, il nome di questo Padre è stato tenuto riservato «per motivi di privacy». Ciò ha dell’incredibile, in un contesto fra i cui presupposti sta la famosa parrhesía: ora, chi agisce «con tutta franchezza e senza impedimento» (At 28, 31) rifugge anche solo l’apparenza dell’ambiguità. Si ricordi che l’espressione idiomatica “a volto scoperto” è coniata da san Paolo che esortava i Corinzi a vivere con una condotta degna dell’alleanza cristiana: «E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore» (2Cor 3, 18).
Altrettanto lascia sgomenti la considerazione che “perdiamo i ragazzi” («alcuni per un po’, altri per sempre»). Bisognerebbe poter parlare francamente e vis à vis con il suddetto Padre sinodale (cf. premessa 1), onde dissipare alcuni punti da una possibile ambiguità: sembrerebbe, a leggere le sue parole (trasmesse per interposta persona), che sia un bene in sé, per i giovani, che stiano “con noi” (cioè con la Chiesa, presumo) ma, poiché l’intervento sembra complessivamente orientato a chiedere (senza chiederla) una modifica della dottrina ecclesiastica sul matrimonio e sulla continenza prematrimoniale, non appare più tanto evidente che cosa – tolte “le esigenze della vita cristiana” – possa essere buono per i ragazzi nella “nostra” compagnia. L’immaginifico linguaggio di Papa Francesco ha stigmatizzato a tal proposito i “cristiani verniciati”, e sembra di risentire le parole accorate con cui Ignazio di Antiochia metteva in guardia i Magnesi dal diventare «cristiani di nome ma non di fatto».
La critica
Non stiamo qui affermando che non si possa essere cristiani se si viola la disposizione della continenza prematrimoniale – quis sustinebit? –, ma anzi rilanciamo la critica dell’Anonimo Padre sinodale, e su più livelli: se quella disciplina risulta diffusamente inosservata ciò non può significare che essa sia di per sé insostenibile (visto che non sono mai mancati quanti la osservano), ma se ne può lecitamente inferire che
- la Chiesa non riesce a comunicarne efficacemente le ragioni e il senso;
- i giovani sono immersi in un contesto culturale che – anche a causa di una soffusa e pervasiva pornografizzazione sociale – rende una virtù come la castità particolarmente difficile.
Ipocrita e disonesto sarebbe idealizzare la continenza in sé come garanzia di buona riuscita del matrimonio e, in generale, di una vita felice: la Chiesa la propone come uno strumento, non come un fine (insomma la virtù della castità non si acquisisce nella continenza bensì, date certe altre condizioni, mediante la continenza), e anzi alcune magagne vita sessuale, alcuni disordini della vita affettiva, hanno proprio in una continenza coatta e male integrata una delle loro radici. Ipocrita e disonesto sarebbe anche – ma non abbiamo evidenza ultima che fosse questo il senso del discorso dell’Anonimo Padre sinodale – rimuovere acriticamente ostacoli per via dei quali, a quanto “si dice”, «perderemmo i giovani». Insomma, se la Chiesa non è ministra della Parola di Dio e collaboratrice della gioia degli uomini… a che serve? E più radicalmente: può ancora dirsi “Chiesa” senza abusare della maiuscola? Non abuserebbe perciò stesso di quei giovani che vorrebbe tenere al proprio interno lasciandoli vivere «come gli altri che non hanno speranza» (1Tes 4, 13-18)?
Mi è piaciuta la risposta che monsignor Emmanuel Gobillard ha dato in proposito ad Arthur Herlin nel libro-intervista con Thérèse Hargot Aime et ce que tu veux, fais-le (“Ama e fa’ ciò che vuoi” – mi è molto dispiaciuto non aver potuto tradurre anche questo libro, dopo Una gioventù sessualmente liberata (…o quasi)). Facendo l’avvocato del diavolo, il giornalista l’aveva provocato:
La castità prima del matrimonio era semplice, prima, quando ci si innamorava a 18 anni e passavano pochi mesi prima di andare via dalla casa paterna. Invece ai nostri giorni, quando le coppie si formano più tardi e la società non ci giudica più… niente ci impedisce di lasciare libero corso a tutti i nostri desiderî… bisogna ammettere che il discorso della Chiesa è particolarmente irricevibile.
E il giovane vescovo (anche a lui in questi giorni a Roma per il Sinodo) ha offerto una replica articolata:
Io penso che la castità prima del matrimonio, o più correttamente la continenza prima del matrimonio, non sia mai stata semplice; che sia sempre stata molto esigente; che gli innamorati degli anni 1920 avessero desiderî sessuali forti almeno quanto quelli dei giovani del XXI secolo. Bisogna smetterla di dire che prima era più facile, che prima era meglio. Così come bisogna smetterla di dire che prima non si sapesse nulla di amore e di sessualità. Ovviamente quest’ultima non si esprimeva allo stesso modo e la società non era altrettanto permissiva, non era erotizzata quanto lo è oggi. Il discorso della Chiesa è certamente esigente, ma non penso che sia irricevibile. Al contrario, io credo che dalla Chiesa la gente si aspetti che essa proponga coraggiosamente i valori del Vangelo, che additi la vetta e la bellezza di un amore che non si precipita e che non si riduce alle relazioni sessuali.
È il paradosso della giovinezza. Come i giovani di oggi, anche io sono stato giovane, sono stato snervato dai discorsi moralizzatori ma anche entusiasmato da quelli che mi mostravano gioiosamente la bellezza delle vette, da quelli che mi invitavano a dare il meglio di me stesso, che credevano in me, che mi sapevano capace di dare tutto. I giovani ci disprezzano quando proponiamo loro prospettive anguste, una vita al ribasso. Al contrario sono felici quando si propone loro di cambiare il mondo. Io voglio che siano felici, e la felicità è compatibile con quello che Gesù propone nel Vangelo. Al giovane ricco dice: «Vendi tutto quello che hai, dallo ai poveri, poi vieni e seguimi». È una follia, ma quando ero giovane amavo quando qualcuno mi proponeva qualcosa di folle. La felicità che auspico per loro non è una felicità al ribasso, una vita senza asperità, senza sorprese e senza sofferenza. Voler non soffrire mai significa voler non amare mai. Dal momento che amo io accetto di soffrire, accetto di portare le sofferenze, le inquietudini di chi amo, accetto di portare con chi amo il peso del giorno; dal momento che amo accetto di crescere, anzi voglio che il mio amore cresca, e la crescita dell’amore non avviene senza crisi, senza difficoltà. Perché essi siano capaci di accogliere le difficoltà della vita, le sue inevitabili sfide, bisogna insegnare loro a volere il meglio. Forse allora non vivranno tutto quello che proponiamo loro, ma sarebbe irrispettoso abbassare l’asticella al livello in cui noi crediamo che essi siano capaci di vivere. Sono molto più capaci di quanto noi crediamo. Amo questo testo di Michel Menu: «Se tu rallenti, essi si fermano. Se tu t’indebolisci, quelli crollano. Se tu ti siedi, quelli si addormentano. Se tu critichi, quelli demoliscono. Ma… se tu cammini davanti a loro, quelli ti supereranno. Se tu dài loro la mano, quelli ti daranno la pelle. E se tu preghi, allora quelli saranno dei santi». Un testo con un certo versante idealistico, certo, ma nel corso degli anni abbiamo così lungamente proposto il più piccolo denominatore comune che abbiamo fatto perdere ai giovani il loro entusiasmo, la loro fede e la fiducia in loro stessi.
Invece se non ci arrivano noi dobbiamo essere lì per incoraggiarli, per non giudicarli, per perdonarli, come Cristo nel Vangelo: egli propone le vette, crede nell’uomo, ma sta sempre là per accogliere, per perdonare, per consolare. Il rischio è di proporre il minimo, di permettere tutto, di non proibire niente… e poi di giudicare severamente la più piccola defezione. Quello che propone il Vangelo è il contrario.
- Herlin, Th. Hargot, E. Gobilliard, Aime et, ce que tu veux, fais-le, 112-113
Restituisce serenità il sapere che monsignor Gobilliard, conoscendo senz’altro l’identità dell’Anonimo Padre sinodale, avrà modo non solo di ripetere a lui privatamente queste considerazioni, ma anche di illustrarle nel corso dei lavori e di incidere nella stesura del Documento finale che sarà poi sottoposto al Santo Padre.
La proposta
Proprio in questi giorni mi è capitata sotto mano un’altra pagina di un ecclesiastico ispirato: a questo Sinodo avrebbe dato di presenza un apporto incomparabile, ma confido che anche in mysterio ne sia un nume tutelare – parlo di don Luigi Giussani e dello strepitoso intervento che don Julián Carrón ha voluto sbobinare e impaginare nell’ultimo numero di Pagina Uno di Tracce (grazie all’amico Luciano per la preziosa segnalazione).
Non si parla di giovani, non espressamente, bensì del periodo di confusione attualmente attraversato da Comunione e Liberazione, e trovo umile e saggia al contempo la scelta di Carrón di rifarsi a questo testo: il discorso è stato pronunciato il 1o novembre 1968, a Varigotti. Siamo al culmine della crisi che in quello stesso anno aveva investito GS [Gioventù Studentesca, N.d.R.]. Giussani interviene proprio in mezzo allo smarrimento generale, e si domanda: da dove ripartire? Che cosa può sostenere veramente la vita in un momento di così grande confusione? Che cosa può reggere l’urto del tempo? Julián Carrón, Giornata d’inizio anno degli adulti e degli studenti universitari di Comunione e Liberazione, Mediolanum Forum, 29 settembre 2018, Tracce ottobre 2018, Pagina Uno 2.
Un testo di cinquant’anni fa per parlare di oggi, un testo su GS per parlare di CL, le parole di Giussani in un discorso di Carrón: nulla di incongruo? Nulla. Si parla sempre della medesima cosa, la cosa sottesa a tutto quanto muove insieme l’enorme macchina del Sinodo dei Vescovi e il grest parrocchiale: «I giovani?». Macché… l’esperienza cristiana!, quell’esperienza semplice e complessa, originaria e sempre nuova che chiamiamo sinteticamente “Chiesa” (con la maiuscola).
Ma io capisco questo: la parola «fede», come l’ho detta io, o la parola «Cristo», come ho detto poc’anzi, o la parola «organismo di Cristo nel mondo», come ho detto poc’anzi ancora, queste parole, come tutte quelle che ho detto, che eco differente hanno in me e in voi; fra tutti noi, quale eco differente! Per quanti tra voi ancora, forse, queste parole risuonano esteriori a sé. Comunque, per quanto si possano sentire esteriori o profondamente inscritte nella propria personalità – come le sento io –, è una conversione di fronte a queste parole ciò a cui noi miriamo in queste giornate. È un avvenimento, non un metterci d’accordo per fare qualche cosa; non una struttura da pensare o da salvare, ma un avvenimento in noi stessi, perché l’uomo adulto poi la struttura la creerà come opera delle sue mani, se e nella misura in cui dentro avrà la faccia che queste parole devono determinare, se avrà il cuore, l’intelligenza e il cuore di cui queste parole dovranno essere contenuto. Luigi Giussani, ivi, 5-6
Il Sinodo finirebbe fatalmente in un vicolo cieco, se si ponesse la domanda “cosa possiamo fare per i giovani?”, come se “i giovani” fossero in qualche modo il fine – o uno dei fini – della Chiesa! Ora invece, poiché il Sinodo è ciò che è, siamo sicuri che alla fine non perderà di vista il vero tema, l’autentico fine, la questione fondamentale che difatti risulta ben scandita nella triplice declinazione del tema: i giovani, la fede, il discernimento vocazionale. E certo, ci sono modi poverissimi d’interpretare questo titolo – gli anticlericali v’imposteranno tentativi di assalto eversivo alla dottrina evangelica; i clericali v’imbastiranno una “campagna acquisti” per il clero e per gli ordini religiosi – né ci sorprenderanno i suddetti tentativi, ma il timone resta sempre in mano a Pietro e una rappresentanza qualificata dei Vescovi della Catholica gode pur sempre (se non della vera e propria infallibilità) di una particolare assistenza dello Spirito.
Non è questione di organizzazione
Giussani vedeva i primi tre lustri delle sue immani fatiche (sue e della Grazia di Dio, cf. 1Cor 15, 10) barcollare sotto le bordate del ’68: “vietato vietare”, “la fantasia al potere”, “tutto e subito” erano slogan dotati di un altissimo potere di seduzione. In trent’anni la generazione precedente aveva visto naufragare «i miti eterni della patria e dell’eroe» (F. Guccini) nei due più cruenti conflitti della storia moderna: poco importa che già quelli fossero movimenti che ripudiavano il plurimillenario portato civile e culturale dell’Occidente – nella propaganda se ne fregiavano e tanto bastò perché agli occhi dei giovani lo incarnassero. Il ripudio della guerra e il ripudio di ogni regola – a ben vedere inconciliabili fra loro – finirono nello stesso furibondo calderone: Gioventù Studentesca accusò il colpo e quel giovane prete dal genio religioso irripetibile, cresciuto a pane e personalismo francese, dovette suggerire una via.
Giussani dimostra in quel lucidissimo discorso una comprensione realmente sinodale e umilmente ecclesiale del proprio ministero: quel Giussani che non abbassò mai il tiro della sua proposta per “andare incontro” alle infermità degli uomini non cedette, neppure quella volta, all’umanissima tentazione di “riorganizzare le truppe”. L’Anonimo Padre sinodale dice: «Altrimenti perdiamo i giovani». Giussani dice: «Non siamo qui a metterci d’accordo per fare qualche cosa, una struttura da conservare o da salvare». Parlava a GS nel ’68, Giussani: parla a CL e al Sinodo nel 2018.
E Giussani non si limitò a non cedere alla “tentazione organizzativa”, ma ebbe l’umiltà di estendere quel momento di autocoscienza ecclesiale (anche il Sinodo è un siffatto momento, chiaramente molto più grande) anche allo stile della prima fase di GS: il richiamo alla tradizione, l’“imperativo culturale” a confrontarsi con essa prima di rifiutarla (o di abbracciarla)… Tutte cose che Giussani stesso, a distanza di soli 15 anni, non avrebbe più usato: non soltanto perché quel nostro mondo viveva un momento di grande povertà quanto al senso della storia – «e il senso della storia è l’indice supremo della ricchezza dello spirito» (p. 7) – ma anche perché la proposta cristiana integrale non può durevolmente far leva sul prodigio di cultura e di civiltà che costituisce la cristianità:
è un altro modo con cui l’ammirazione dell’intelligente può ancora essere destata, ma non quel movimento della persona che la faccia passare a qualcosa di nuovo, la faccia impegnare con qualcosa da fare, con qualcosa di definitivo, di definiente e di definitivo − quante volte, pure, abbiamo fatto questo richiamo! −: non è il fatto che la filosofia cristiana della vita, lo sguardo cristiano sul mondo, la teoria cristiana dell’esistenza sia più completa, sia completa rispetto alle altre, perfetta, equilibrata, comprensiva, umanissima, non è neanche la meraviglia d’una teoria perfetta, che può muovere il giovane di oggi e ognuno di noi, nella misura in cui ha qualcosa di giovanile in sé. Ivi, 7
Non è la storia, non è la filosofia, e vorremmo che Giussani non ci tenesse così sulle spine, bensì che ci dicesse che cos’è «che può muovere il giovane di oggi», ma il prete di Desio, che allora aveva da poco compiuto 46 anni, ci spiazza (soprattutto noi che a diverso titolo siamo attori/commentatori del Sinodo) proseguendo: «…e ognuno di noi, nella misura in cui ha qualcosa di giovanile in sé». Ecco perché non si tratta di capire “cosa fare per i giovani”:
Ho parlato del giovane, ma quel minimo di giovanili cui ho accennato prima rimane nell’uomo per tutta la sua vita, per cui anche per noi è così, anche per l’uomo adulto e maturo è così […].
E laddove le nostre intelligenze imbolsite da mediocre retorica si aspetterrebbero una planata sull’“importanza di restare spiritualmente giovani” Giussani ci spiazza ancora, gettando più avanti la linea dell’orizzonte:
[…] Anzi, per l’uomo adulto e maturo questo problema non si pone, proprio perché per diventare adulti nella fede bisogna averlo superato, bisogna aver superato il richiamo affascinante del motivo storico e il richiamo mirabile di una estetica data da una perfezione teorica. Ibid.
Non si tratta di impegnarci a “restare giovani”, perché qualcosa della giovinezza esistenziale resta per tutta la vita – e quel qualcosa non è un vago sentimento, ma il punto d’appoggio della conversione, quel coraggio di rimettere in gioco la vita radicalmente –, ma proprio di diventare veramente adulti. Ora questo lascia al nostro “momento sinodale” (comprendendo in esso, nel senso più lato possibile, anche tutti noi che da tutto il mondo seguiamo il progredire dei lavori) due questioni su cui fare una sana verifica:
- siamo abbastanza giovani da convertirci ancora e sempre, in una continua tensione della vita?
- siamo abbastanza adulti da non essere cristiani per via di infatuazioni estetico-intellettuali?
Nella misura in cui il nostro “sì” a queste due domande non può essere convinto e convincente, siamo dei cristiani decadenti, precisamente nel senso che la nostra “data di scadenza spirituale” è prossima: se tutto va bene, diventeremo degli “atei devoti”. E in tal caso non sarà una “migliore organizzazione” di checchessia a cambiare le cose per noi.
Occorre essere annuncio
Ma dunque cosa sarà? Quali sono le vette indicate da Gobillard? Di che parlava Giussani nel 1968?
In che cosa è consistito quell’avvenimento che ha destato un tale interesse, ha determinato una tale impressione che la gente per la prima volta ha rischiato con ciò che le stava davanti, che la gente per la prima volta ha avuto la fede accesa dentro, che il cristiano è incominciato ad essere nel mondo? Quale è stato quell’avvenimento, di che tipo fu quell’avvenimento? Non credettero perché Cristo parlava dicendo quelle cose, non credettero perché Cristo fece quei miracoli, non credettero perché Cristo citava i profeti, non credettero perché Cristo risuscitò i morti. Quanta gente, la stragrande maggioranza, lo sentì parlare così, gli sentì dire quelle parole, lo vide fare quei miracoli, e l’avvenimento non accadde per loro. L’avvenimento fu qualcosa di cui il miracolo o il discorso erano articoli, erano segmenti, erano fattori, ma fu qualcosa d’altro, di più, di così diverso che al discorso e al miracolo diede il loro significato. Credettero per quello che Cristo apparve. Credettero per quella presenza, non per questo o quello che fece e che disse. Credettero per una presenza. Una presenza non glabra o ottusa, una presenza non senza faccia: una presenza con una faccia ben precisa, una presenza carica di parola, cioè carica di proposta. Credettero per una presenza carica di proposta. Una presenza carica di proposta è, dunque, una presenza carica di significato. Ivi, 8
La parola con cui Giussani sintetizza tutto ciò – avvenimento, presenza, proposta, significato – è “annuncio”, e ognuno vede da sé quanta roba ci perdiamo ogni volta che, inavvertitamente, intendiamo per “annuncio cristiano” un’idea, un concetto, un sistema o – nella migliore delle ipotesi – “l’idea di Gesù”. “Annuncio” è la modalità d’essere originaria della Chiesa, è tutto ciò che la Chiesa è finché resta sé stessa e deve essere per restare tale: l’annuncio non è né anzitutto né perlopiù un contratto morale, non è il cathechon che i massoni temono e i reazionari desiderano al di sopra di tutto. L’annuncio è una particolare presenza – non una qualunque! – carica di una proposta ricca di significato. Ecco la Chiesa (con la maiuscola), ecco ciò da cui e a cui solo può ricondurre – arricchiti, certamente – ogni momento di autocoscienza ecclesiale. Questa sola entità «che si espande attraverso il tempo e lo spazio e getta radici nell’eternità» (C.S. Lewis, Lettere di Berlicche, II lettera) è quell’unica che vale la pena incontrare, e nell’incontro con la quale vale la pena cambiare vita.
Naturalmente vale sempre la legge della gradualità («non la gradualità della legge» Giovanni Paolo II, Familiaris Consortio 34), vale appunto tutto quanto diceva Gobillard nonché la massima di Giussani ricordata da Carrón nell’omelia: «Si sottolinea il positivo, pur nel suo limite, e si abbandona tutto il resto alla misericordia del padre» (L. Giussani, S. Alberto, J. Prades, Generare tracce nella storia del mondo, Milano 1998, 159). La Chiesa è in cammino, anzi la Chiesa – quale “organismo di Cristo nel mondo” – è in un certo senso il cammino stesso: la vita ecclesiale comporta “la tenacia di un cammino” (Giussani e per questo chi guida “le cordate” deve calibrare certo gli sforzi sulle forze, ma senza perdere di vista “le vette”. A voler essere seri e conseguenti, un’operazione che manometta la proposta della Chiesa – cioè il significato salvifico-esistenziale del suo annuncio – non soltanto non sarebbe lecita, ma parlando in senso stretto risulterebbe abusiva. Soprattutto riguardo ai giovani. E se qualche ecclesiastico volesse sfruttare le proprie leve per abusare dei giovani (abusi non solo sessuali, ricordava profeticamente il Papa, ma anche “di potere” e “di coscienza”) avrebbe scelto il momento peggiore per farlo.
Giovanni Marcotullio
Aleteia, 9 ottobre 2018