Viviamo il tempo dell’incertezza. Le istituzioni sovranazionali sono in crisi e svuotate. L’Onu è impantanato in equilibri che risalgono al dopoguerra nel mentre il mondo è profondamente cambiato rovesciando i vecchi rapporti di forza; la Ue ha perso la qualità migliore che aveva: la forza del sogno per l’unificazione di un continente da secoli dilaniato da conflitti e devastazioni. Anche le istituzioni nazionali hanno sfondato al ribasso il minimo sindacale di fiducia e affidabilità, e il fatto che i cittadini nei sondaggi si aggrappino agli uomini che incarnano le principali – il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il premier Giuseppe Conte sono stabilmente ai vertici della popolarità – non è altro che il rovescio della medaglia di un sentimento di smarrimento che si allarga a macchia d’olio. Servirebbe uno scatto in avanti della classe dominante, la ruling class delle democrazie anglosassoni, unificando lungimiranza di scopi ed efficacia d’azione. Ma proprio laddove più antiche sono le radici dei meccanismi democratici si sono create crepe profonde che disorientano: dai tweet usati per governare il più potente Paese del mondo, al balletto pop di chi ha provocato la più grave scissione continentale e adesso si dimostra incapace di pilotarne la gestione. Né al di qua dell’Atlantico e della Manica le cose vanno molto meglio, tra velleitarismi populistico- securitari e sbandieramento di regole e patti una volta definiti “stupidi” perfino da chi li aveva sottoscritti e oggi diventati feticcio di chi insiste a garantirsi benessere a scapito di altri. L’Italia è nel pieno di questa bufera di cambiamento, essendone al tempo stesso vittima e mosca cocchiera. È anacronistico e fuorviante pensare di rigettarlo; rischia di diventare esiziale assecondarlo senza salvaguardare argini e regole. Il punto è proprio questo. Non basta irridere agli annunci sulla fine della povertà o alle garanzie di porti e frontiere chiuse come sinistra ipoteca di auto isolamento. La democrazia prevede che i cittadini scelgano chi li deve governare e che questi ultimi attuino i programmi sui quali si sono impegnati. Se la maggioranza gialloverde pensa che il modo migliore per affrontare le difficoltà del Paese – e stimolare una crescita che allo stato è puro auspicio priva di certezze, visto che automatismi in un ciclo economico precario come l’attuale non esistono – risieda nel fare più debito in una condizione in cui esso è già abnorme, faccia. L’importante è che sia consapevole dei rischi che corre e che fa correre ai cittadini: tutti, non solo quelli che li hanno votati. E soprattutto che si doti di un orizzonte credibile e strutturato, con risultati definiti con precisione e verificabili nella loro attuazione.La sensazione di queste ore nel passaggio delicatissimo della legge di Bilancio è che simili priorità non siano considerate. Ciò che maggiormente impressiona non è il balletto delle cifre o le carte annunciate e presentate colralenti.Quel che sconcerta è il corto respiro di misure che pure sono comunicate con lo stilema di epocali inversioni di tendenza rispetto al passato. La gradualità non è la dote principale dell’alleanza Lega- M5S e per molti non è detto sia necessariamente un male. Ma non è possibile varare interventi che dovrebbero svellere gli ostacoli che hanno reso l’Italia in molti settori fanalino di coda europeo, coltivando al tempo stesso continue palingenesi elettorali, lasciando filtrare propositi di rimpasti che sanno di rammendi o, peggio di tutto, vellicare pulsioni assistenzialistiche con l’occhio alle urne, mentre si proclama unità d’intenti e fiducia negli interpreti attuali che debbono realizzarli. Gli elettori hanno votato perché l’Italia sia governata, non continuamente scrollata come una pianta da cui far cadere i frutti, anche quando sono ormai tutti sparsi per terra.Salvini e Di Maio, ciascuno per la sua parte, segnano un salto anche generazionale nella leadership politica. L’opinione pubblica li sostiene e continua a farlo nonostante palesi sbandamenti non solo per la spinta della luna di miele elettorale quanto perché segnano una cesura forte rispetto al passato. Hanno entrambi una enorme responsabilità e, come i sondaggi anche di ieri confermano, ancora un cospicuo patrimonio di credibilità. Se si attardano in giochini da piccolo cabotaggio o in furbizie propagandistiche, possono solo perderlo. Magari altrettanto rapidamente di come l’hanno ottenuto. Se ciò accadesse, dopo non potrebbero prendersela che con loro stessi.
18 ottobre 2018
M5S-Lega: la sindrome da “corto respiro” che mina la governabilità del Paese