Le parole severe con cui papa Francesco ha stigmatizzato le pratiche abortive e i medici che le pongono in essere hanno lasciato disorientati molti ‘laici’, sinceri ammiratori del pontefice, ma non fino al punto di lasciarsi indurre a riaprire una seria riflessione su quello che indubbiamente è il massimo problema di etica pubblica e di bioetica del nostro tempo. La maggior parte dei commentatori ha adottato toni di rispettoso, ma severo distacco.
Ma non sono mancati coloro – come Dacia Maraini, sul ‘Corriere della Sera’ del 17 ottobre – che hanno preferito usare espressioni, morbide, addolorate, quasi affettuose, chiaramente volte però a ‘far aprire gli occhi’ a Francesco, ritenuto poco consapevole del fatto che per ogni donna l’aborto è sempre un dolore e che la legge italiana in materia è un’ottima legge, che ha fatto diminuire il numero degli aborti. Se papa Francesco parlasse di più con le donne e soprattutto con le migranti – insiste la Maraini – capirebbe che dietro l’aborto c’è paura, povertà, ignoranza e non userebbe più espressioni che fanno tornare alla mente la vecchia alternativa: o la castità o il carcere (sic).
Sarà il Papa stesso, se vorrà, a rispondere a questa e altre reazioni alle sue parole. A me interessa piuttosto rilevare come tutti, dico tutti, gli argomenti usati dalla scrittrice fanno arretrare la riflessione sull’aborto di decenni, riconducendola a stereotipi non necessariamente falsi, ma antiquati, perché non più calibrati sulla realtà del mondo d’oggi (come appunto l’alternativa ‘o la castità o il carcere’, che fa davvero sorridere, sia pur amaramente).
Cerchiamo quindi di stabilire alcuni punti che dovrebbero restare fermi. Punto primo: l’aborto è una pratica che nella seconda metà del Novecento ha ottenuto pressoché in tutti i Paesi del mondo una piena legittimazione. Si tratta però di una legittimazione giuridico-sociale, a cui non è corrisposta (checché se ne dica) un’autentica legittimazione etica.
Perché? Perché (punto secondo) non è possibile definirlo alla stregua dell’interruzione di un «progetto di vita» (come sostiene la Maraini, restando incredibilmente vincolata a vecchi paradigmi biologici superati da anni): l’aborto consiste nell’uccisione di un’autentica vita umana nelle prime fasi del suo sviluppo ed entra in contraddizione, senza scampo, col rispetto per la vita che qualifica la sensibilità dominante nel nostro tempo.
Terzo punto: nessuno oggi seriamente sostiene che si debba combattere l’aborto «con le minacce e la demonizzazione»; siamo tutti convinti che la sola alternativa all’aborto sia la prevenzione e un intelligente e concreto sostegno alle donne che vogliono ricorrere all’aborto per ragioni economico-sociali (a questo proposito: perché i movimenti femminili, in un momento in cui si discute di un ‘reddito di cittadinanza’, non propongono l’istituzione di un ‘reddito di maternità’?).
Quarto punto: dovremmo finalmente convincerci tutti che le scelte abortive non dipendono solo dai residui di un’antica cultura patriarcale e repressiva! La libertà per la quale le donne giustamente si battono nel nostro tempo (e nella quale fanno rientrare l’«aborto libero») non ha propriamente per oggetto la loro sessualità (come sembra sostenere la Maraini), ma la loro identità specifica e profonda, quella materna, identità umiliata e non consolidata dalle pratiche abortive.
Quinto e ultimo punto: è innegabile che molte donne abortiscano ‘per disperazione’ e che le loro lacrime debbano essere asciugate, ma è altrettanto innegabile che oggi per altre e non poche donne (e purtroppo per molte ideologhe del femminismo, come Shulamith Firestone) la maternità sarebbe meritevole di essere paragonata a un « shitting a pumpkin » (espressione che è cosa buona e giusta lasciare non tradotta) e quindi drasticamente rifiutata. Su questo punto tutti (e non solo le donne) dovrebbero assumere un atteggiamento di estrema chiarezza: ridurre il dare la vita (con responsabilità) a una scelta privata e insindacabile, come sostengono le e i ‘childfree’, è un’opzione che in una società liberale non può che essere rispettata, ma che è anche di un’impressionante povertà antropologica.
Abbiamo l’assoluto dovere di aprirci a una fraterna e operosa comprensione nei confronti delle donne che ricorrono ad aborti di necessità; ma questo non implica rinunciare a un severo e doloroso giudizio verso la troppo frequente banalizzazione dell’aborto che dilaga da decenni in Occidente. Quando arriverà il momento per riaprire con intelligenza e profondità un nuovo dibattito sulla generatività e sull’aborto?
Francesco D’Agostino
31 ottobre 2018
https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/aborto-proprio-lora-di-un-dibattito-nuovo