È senza dubbio il Salterio, attribuito nella tradizione ebraica e cristiana a Davide, re e profeta, il libro biblico più cantato, letto, pregato, commentato. Alla sterminata bibliografia si aggiunge ora il monumentale commento di un monaco di Bose (Ludwig Monti, I Salmi: preghiera e vita, Magnano, Edizioni Qiqajon, 2018, pagine 1889, euro 60).
Centrale nella vita monastica, questa raccolta poetica ha sempre colpito e colpisce chi vi si imbatta, credenti e non credenti, che spesso vi si identificano e vi si ritrovano. Di questo commento, che viene appunto da un ventennio di «consuetudine quotidiana con il Salterio (proclamato liturgicamente per intero ogni due settimane)» pubblichiamo una presentazione dello stesso autore. (g.m.v.)
Chi legge, sussurra, grida, medita, prega un salmo, non è mai solo, anche nella più completa solitudine. Si è sempre in compagnia di un’incalcolabile schiera di uomini e donne che da secoli, a ogni latitudine, hanno intonato o mormorato sommessamente questi testi, nelle lande mediorientali, nel tempio di Gerusalemme, nelle sinagoghe, nelle chiese, nei monasteri, nelle case, nelle prigioni, nei più diversi paesaggi naturali, «coricandosi, risvegliandosi o camminando per via» (cfr. Deuteronomio, 6, 7; 11, 19).
Questo necessario decentramento e questa consolante comunione che varca il tempo e lo spazio sono un miracolo che non dipende da noi lettori, ma può avvenire solo in obbedienza al tesoro del piccolo libro dei Salmi, da mettere a disposizione di chiunque, sotto il sole, voglia camminare sulla via della vita. Scriveva Martin Lutero: «Chi ha iniziato a pregare con serietà e regolarità il Salterio, ben presto “licenzierà” le altre facili e familiari “preghierine devote” e dirà: “Qui non c’è l’energia, la forza, il calore e il fuoco che trovo nel Salterio”». Un pregare, un meditare che si riverberano inevitabilmente sul modo di vivere.
Perché ci siamo allontanati dal tesoro dei salmi, che per secoli ha costituito la preghiera di uomini e donne nella gioia e nel dolore, nell’esultanza e nel pianto? Perché non sappiamo più accompagnare con i salmi i giorni luminosi e quelli bui della nostra vita, fino a sperare, attraverso le loro parole poetiche eppure così carnali, una vita oltre la morte? Abbiamo dimenticato il giudizio che ci viene da una fonte inattesa, uno dei “maestri del sospetto”: «Tra ciò che sentiamo alla lettura dei salmi e ciò che proviamo alla lettura di Pindaro e Petrarca c’è la stessa differenza che tra la patria e la terra straniera» (Friedrich Nietzsche).
Il tesoro dei salmi attende dunque di essere riscoperto, con la sapienza dei rabbini, dei padri della Chiesa e della liturgia cristiana. Per semplicità e chiarezza, si potrebbero riassumere in numero di cinque le tappe che scandiscono la lunghissima vita del Salterio: i salmi preghiera di Israele; i salmi preghiera di Gesù Cristo; i salmi preghiera della Chiesa; i salmi preghiera del cristiano; i salmi preghiera dell’essere umano. E quando dico preghiera intendo quella ricerca di senso e di vita che si manifesta in innumerevoli forme, più o meno consce.
Sappiamo bene, infatti, che «non sappiamo come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori conosce il desiderio dello Spirito» (Romani, 8, 26-27). Preghiera, dunque, come desiderio di vita, desiderio che ci precede, nel quale siamo chiamati a innestarci, a “trapiantarci” (cfr. Salmi, 1, 3). È quanto espresso con intelligenza da Paul Beauchamp: «Nessun uomo sa veramente ciò che desidera. È questo il desiderio. Ciò nonostante, sappiamo desiderare. Bisogna desiderare quando si leggono questi testi biblici, bisogna leggerli con il proprio desiderio, bisogna leggervi il proprio desiderio. Pregare è questo».
In questa luce, si potrebbe ripercorrere brevemente ciascuna delle tappe sopra accennate. Ricordando, per esempio, che «l’anima cristologica dei salmi — preghiere dell’uomo prima di Cristo — sta nel fatto che il Figlio di Dio si è fatto in tutto uomo, uomo davanti a Dio. L’anima cristologica dei salmi sta nella loro umanità» (Bruno Maggioni). È un tesoro che l’uomo Gesù conosceva, meditava, pregava e amava: attraverso le sue parole, i suoi gesti e i suoi incontri oggi possiamo riscoprire i salmi, che alla luce del Vangelo ci guidano sulla via della vita.
Faccio dunque solo un accenno al tenore intrinsecamente umano dei salmi, che spero sia noto anche a chi si definisce non credente, ma temo non lo sia, per un certo pregiudizio verso un libro contenuto nella Bibbia. È la persona umana, nella sua unità e unicità, che viene dipinta nel Salterio, messa in musica in questo spartito musicale della vita: corpo e sentimenti, uniti insieme. I salmi sono il respiro dei nostri sensi e dei nostri sentimenti, sono la carne delle nostre relazioni quotidiane, sono il canto dell’autenticità umana, in tutte le sue dimensioni fisiche e psichiche, nessuna esclusa: lacrime, gemito, mormorio, grido, risa, stupore, confidenza, amore, gioia, rabbia, tristezza, sofferenza, paura, speranza e disperazione.
O si pensi alle innumerevoli posizioni assunte dal corpo, impegnato nella preghiera, quale ci viene descritto in quel «grande giardino dei simboli» (Thomas Stearns Eliot) che è il Salterio. Corpo in preghiera, cioè vita in cerca di senso: anche questo sono i salmi.
Ogni essere umano, nel suo peregrinare su questa terra, può riconoscersi nei salmi. Se vuole, può accogliere da essi il ritratto di uno dei partner del dialogo, Dio. Anzi, può riconoscere che Dio per primo lo cerca quale “salterio umano”, per potersi manifestare attraverso di lui nella storia. In ogni caso, si riconosca o no come l’altro partner, nello scorrere il Salterio ognuno può vedere svelarsi il proprio volto, ossia l’intera condizione umana che porta inscritta in sé: il suo nascere, il suo essere giovane e poi anziano, il suo commettere errori (peccati), il suo lavorare, il suo riposarsi, il suo dimorare nell’intimità della casa, il suo ammalarsi (e la condizione di malattia è espressa nei salmi senza remore, lasciando libero corso al lamento per il suo non senso), il suo guarire o non guarire, il suo essere allo stretto (cioè nell’angoscia) oppure nella gioia condivisa, il suo vivere con altri, il suo bisogno di solitudine, fino al suo morire, sperando che la morte — il grande nemico, l’ingiustizia somma — non sia l’ultima parola.
Ancora, cosa può dirci, in chiave antropologica, la contrapposizione di fondo che attraversa tutto il libro dei Salmi, quella tra giusto e malvagio? Che ciascuno di noi può camminare sulla via della vita, facendo azioni di giustizia e invocando, anche con veemenza, il ristabilimento della giustizia calpestata (i salmi imprecatori); oppure può scegliere la via della morte, perché «ogni uomo porta in sé il volto dell’empio» (André Chouraqui). Sta a noi scegliere e riscegliere ogni giorno da che parte stare, ma non potremo dire che i salmi non ci abbiano avvertito.
Insomma, il Salterio non è un libro “pio” o “devoto”, ma è come un vino di grande qualità e di lungo invecchiamento: sprigiona nel corso del tempo profumi articolati, inaspettati e mutevoli, e un gusto che, ogni volta che lo si assaggia, può dare sensazioni diverse. Quando lo si conosce e lo si frequenta come un caro amico, il Salterio è «uno dei pochi libri in cui ognuno si trova interamente a casa» (Rainer Maria Rilke). Davvero, «non si troverà nell’uomo nulla che non sia in questo libro» (Atanasio di Alessandria); e «ogni uomo, secondo quanto egli è, può ritrovare se stesso nel libro dei Salmi» (rabbi Nachman di Breslav).
Recentemente durante un pasto un ospite presso il mio monastero, saputo che stavo lavorando sui salmi, mi ha detto: «Sei esperto dei salmi? Allora sei esperto della mente e del cuore umano». Non io, ma certamente i salmi sì.
di Ludwig Monti
10 novembre 2018
L’Osservatore Romano