Aveva una grave cardiopatia che l’ha strappata alla famiglia a soli 11 anni, eppure dicono le maestre: “La bellezza di questa bambina ci fa dire che la disabilità è una vera ricchezza”.
«Maestra, l’avrei salutata con tanto più affetto se avessi saputo che venerdì era il suo ultimo giorno di scuola» (da Il Resto del Carlino)
Con queste parole un compagno di classe di Noemi Nesi ha accolto la notizia della sua morte, avvenuta pochi giorni fa a Bomporto in provincia di Modena. Aveva solo 11 anni ed era affetta da una grave cardiopatia; si era trasferita da Pistoia in Emilia con la famiglia per essere sottoposta a un trapianto di cuore all’ospedale Sant’Orsola di Modena. Non è bastato, ed è stata trovata esanime nella sua cameretta la scorsa domenica.
Da neonata era stata attaccata a un cuore artificiale per nove mesi e la parola usata in quel caso fu miracolo, perché sono strumenti che di solito hanno una durata che non supera i tre mesi. Tutto in questa storia dovrebbe parlare di morte, di una fine arrivata troppo presto; ingiusta, per una bambina che traboccava di gioia. Leggendo le testimonianze raccolte s’incontra l’ipotesi tutt’altro che sentimentale e astratta di una vita piccola che ha generato tanto, di un cuore malato che ne ha curati molti.
Cuore, che significa poi?
È una della parole più connotative del nostro essere umani, ma viene usata tanto spesso da risultare logorata; il cuore si è sbiadito a significare di tutto e di più, tendenzialmente in contesti dalle tinte zuccherose e vagamente rosate. È una delle emoji più usate nei nostri messaggini quotidiani. Per dire cosa, poi? … che non possiamo stare a perdere tempo per trovare le parole giuste, ma ci basta lanciare nel virtuale un generico messaggio di tenerezza. Perdiamo per strada la nostra identità, per colpa della fretta e della paura di stare davvero a tu per tu con la vita pulsante. Ne è un segno eclantante il fatto che smettiamo di capire le parole più caratterizzanti del nostro DNA: restano belle e suggestive, ma non ci parlano più come dovrebbero. Ed è come guardarsi allo specchio e vedere, al posto di un volto, solo nebbia.
La storia di Noemi ci ricorda che il cuore è una faccenda seria, tutt’altro che legata all’affetto inteso come dolcificante. L’affetto è l’alleato necessario della comprensione: ognuno di noi ha questa spinta a legarsi a ciò che ha compreso come bello, portatore di felicità, soddisfazione, gusto di vivere. Noemi aveva un cuore di carne malandato, ma il suo vero cuore funzionava benissimo: la malattia non le aveva impedito di aggrapparsi a tutto ciò che nella vita le prometteva gioia e occasioni di crescita, entusiasmo. Le maestre dicono che sarebbe andata a scuola anche di domenica.
«Da quando era arrivata da noi, da Pistoia, un anno e mezzo fa – ricordavano ieri commosse le insegnanti – era riuscita a cambiarci tutti in meglio. I bambini l’adoravano e lei adorava loro e noi e, soprattutto, venire a scuola dove spesso si calava nel ruolo di ‘maestra’. Per lei era una festa fare lezione, e anche la domenica avrebbe voluto la scuola aperta». (Ibid)
Ero poco più grande di Noemi quando incontrai l’ipotesi cristiana che mi snebbiò la vista sul senso della vita, che io vedevo incerto e addirittura cupo. Nel mio caso furono le parole di Don Giussani a dirmi che il cuore era ciò che mi avrebbe guidato alla meta giusta e non intendeva affatto un generico sentimentalismo istintivo, quello sotteso nella frase “va dove ti porta il cuore”. Intendeva invece ricondurmi alla festa che anche Noemi ha provato vivendo la sua breve esperienza quotidiana fatta di studio, famiglia e amici: imparare è bello perché porta ogni persona a incontrare meglio se stesso, a fare i conti con le domande più urgenti e sul desiderio che abbiano una risposta altrettanto vera.
Perché sono qui? Che senso hanno il bene e il male che provo? La felicità è un’illusione? Perché si perdono le persone amate? Ecco, il cuore è questo grumo umano che arde di senso e del bisogno di aggrapparsi a una verità che non sia passeggera.
A differenza di tanti adulti e giovani distratti, Noemi non poteva schivare il confronto serrato con queste domande; chi l’ha conosciuta parla di un entusiasmo di vita proprio perché la malattia getta alle ortiche le finzioni e impone un contatto acceso – bruciante – con la concretezza di sé: capita allora, e suscita stupore e ringraziamento, che una vita vissuta pochi anni sia autentica nel godere appieno di ogni occasione buona incontrata.
Stare di fronte alla morte
«I bambini sono inconsolabili – raccontavano ieri le maestre – e noi lo siamo altrettanto al punto che siamo tutti supportati da uno psicologo» (Ibid)
Inconsolabili, però non vuol dire disperati. Vivere la perdita di un coetaneo è un’esperienza che apre, oltre al dolore, una ferita di grande paura; decifrare un’emozione così debordante è necessario, edulcorarla no. I bambini sono capaci di sostenere il confronto con il lutto, ci chiedono spesso di affrontare il tema della morte. Provare un dolore pieno, anche inconsolabile, non è un’occasione di sola negatività; non dobbiamo privarli di piangere forte.
Quello di cui spesso ci lamentiamo è la mancanza di empatia e compassione, che porta a episodi di bullismo addirittura raccapricianti. Non privare i nostri figli o alunni di vivere pienamente un dolore, quando piomba anche senza preavviso nella vita, è l’inizio della strada che porta alla compassione. Il dolore mi fa male, dunque fa male anche agli altri. A volte noi crediamo di voler bene ai bambini tenendoli alla larga dall’impatto crudo con le ingiustizie o con la sofferenza, ci è chiesto invece di affondare insieme a loro lo sguardo nel mistero del male umano.
Dal resto del mondo (TV, chiacchiere, videogiochi) non riceveranno altro che violenza splatter, vendicatività, esibizione della sofferenza, rabbia per l’incomprensione di certe tragedie; a noi spetta di fare il cammino più impegnativo, quello di chi chiama per nome i fatti anche più crudeli e azzarda di portare anche nel buio più fitto la luce di Chi ha sconfitto la morte. La mia migliore amica delle elementari, morì all’improvviso quando eravamo in prima superiore. L’insegnante di religione tradusse questo lutto che aveva scovolto l’intero istituto in un’occasione di incontro tra di noi, studenti e insegnanti.
Nessuno aveva risposte pacificanti, e questo fu l’aspetto che più mi consolò e che ricordo con più chiarezza. Prima di quel momento eravamo, in fondo, estranei gli uni agli altri; guardarci vulnerabili e impauriti, constatare che anche gli adulti facevano i conti con i “perché” difficili da pronunciare mi aiutò a non avere paura di tremare. Che il dolore non sia un’esperienza privata e disperante è già compassione piena; è già un inizio nuovo dentro una storia di morte.
«La bellezza di questa bambina ci fa dire che la disabilità è una vera ricchezza» hanno dichiarato le maestre di Noemi e non credo siano affatto parole di facciata. Tutto quello che ci mette a contatto senza veli con la fragilità e con la vulnerabilità umana genera un contributo impensabile di bene, molto più delle proposte astratte che vorrebbero inquadrare solo i nostri profili migliori. La nostra casa sta in piedi davvero sulla pietra che altri costruttori avrebbero scartato.
Annalisa Teggi
Aleteia, 21 novembre 2018