Fra non molto l’Aifa (Agenzia Italiana per il Farmaco) si pronuncerà in ordine alla possibile somministrazione, sotto stretto controllo medico, della molecola triptorelina ad adolescenti affetti da disforia di genere, allo scopo di procurare loro un blocco temporaneo, fino a un massimo di qualche anno, dello sviluppo puberale, con l’ipotesi che ciò “alleggerisca” in qualche modo il travagliato percorso di definizione della loro identità di genere. Sempre su questo tema, il 13 luglio 2018 il Cnb (Comitato Nazionale per la Bioetica) – lo si ricorderà – aveva approvato un parere etico su richiesta dell’Aifa stessa, con un solo voto contrario. La strada per il farmaco gender, come viene chiamato, sembra insomma tutta in discesa.
Tuttavia, i dubbi degli esperti negli otto centri italiani che seguono le linee guida dell’Osservatorio nazionale sull’identità di genere sono tutt’altro che risolti. Anzi. Ci si continua con insistenza a chiedere se davvero il ricorso alla molecola sintetica che inibisce l’ormone dello sviluppo testicolare e ovarico, bloccando di fatto l’adolescenza in attesa di “cambiare sesso”, possa essere la soluzione decisiva nei casi di disforia di genere. Sul punto, infatti, le perplessità sono davvero parecchie. E proprio per fare chiarezza in proposito, è stato da poco diffuso un articolato documento dell’associazione Scienza & vita e del Centro studi Rosario Livatino.
In esso, si pone anzitutto una questione di metodo, sottolineando come, prima di essere messo in commercio, ogni farmaco attraversi un complesso iter di sperimentazione, al fine che ne siano valutate l’efficacia e la sicurezza; ma nel caso della triptorelina mancano sia gli studi clinici, sia i follow-up a lungo termine per evidenziare eventuali rischi a seguito della sua prolungata somministrazione. Significa che non esistono garanzie scientifiche sull’effettiva portata benefica di questo farmaco. Non solo.
Scienza & vita e il Centro Rosario Livatino, ricordando che la motivazione principale che il Cnb ha addotto a favore dell’uso off label del farmaco, sia la sofferenza del minore con disforia di genere, soprattutto per il timore di comportamenti autolesionistici e di intenzioni suicidarie, rimarco come anche su questo non vi sia alcuna evidenza scientifica che quello con triptorelina sia il trattamento elettivo per queste situazioni. Inoltre, in caso dall’Aifa arrivasse semaforo verde, è elevato il rischio che «la pratica clinica quotidiana degeneri, finendo per ridurre la soluzione di un problema così complesso e decisivo per la persona alla banale somministrazione di una molecola».
C’è inoltre la questione, delicatissima, del consenso all’assunzione di questo farmaco, che nel caso in parola dovrebbe arrivare dal minore affetto dal disforia di genere. Ma «un minore in età prepuberale che si trovi in “condizione frequentemente accompagnata da patologie psichiatriche, disturbi dell’emotività e del comportamento”», si chiedono Scienza & vita e il Centro Rosario Livatino, «può esprimere un consenso? Come possono i professionisti del settore garantire che il consenso di un preadolescente affetto da disforia di genere sia “libero e volontario”?». È senz’altro un quesito non da poco.
Tutto questo, peraltro, in un contesto che, in Italia, vede appena un giovane ogni 9.000 affetto da disturbi dell’identità di genere e sono tantissimi – fra questi giovani – coloro i quali superano il loro disturbo al termine dell’età dello sviluppo. C’è dunque il fondato sospetto che finora si sia discettato di triptorelina con una leggerezza che non solo non considera le lacune scientifiche sugli effetti di questo farmaco, aspetto già grave, ma che ha certamente sovrastimato o lasciato sovrastimare l’incidenza statistica di coloro che potrebbero, eventualmente, trarre una qualche forma di beneficio dall’assunzione dello stesso. Ne consegue come l’invito alla prudenza di Scienza & vita e del Centro Rosario Livatino risulti estremamente ragionevole. C’è da sperare che l’Aifa non resti indifferente a tutti questi peraltro fondatissimi rilievi.
Giuliano Guzzo
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