Idee. Machiavelli, Pascal e la politica come arte

By 15 Febbraio 2019Cultura

Carlo Ginzburg propone una lettura intrecciata dei due autori col loro comune richiamo alla casistica medievale e alle fonti storiche cercando l’ago nel pagliaio per confermare o smentire un’ipotesi.

Non di manco: congiunzione avversativa, che nasconde, come spesso accade con le parole che sono uscite dall’uso quotidiano, una storia che chiama in causa usi e abusi dimenticati o abbandonati, in questo caso la casistica cara a una parte della teologia morale, tra Cinquecento e Seicento in particolare. Potrebbe sorprendere, ma fino a un certo punto, che a essa, la casistica, sia legato persino Machiavelli. Ma Carlo Ginzburg poco oltre la metà della sua raccolta di saggi intitolata appunto Nondimanco. Machiavelli, Pascal (Adelphi, pagine 242, euro 18) ribadisce che quella congiunzione avversativa segnala nell’autore del Principe «la tensione tra norme ed eccezioni, ispirata alla casistica medievale».

Ginzburg, come al solito, ci apparecchia la tavola per un pasto ricco di sapori e intrigante nelle scoperte, in un teatro allestito per una buona parte del libro nella biblioteca del padre di Machiavelli, Bernardo, che tra il 1474 e il 1487 ebbe a scrivere un Libro dei ricordi che contiene parecchi spunti per filologia da detective di Ginzburg. La quale biblioteca chiama in causa Aristotele attraverso alcune edizioni della Politica e dell’Etica Nicomachea (con cui la casistica ha analogie), e san Tommaso che commenta Aristotele e trova a completare l’esegesi il suo discepolo Pietro d’Alvernia in una edizione di fine XV secolo, con la traduzione latina di Leonardo Bruni. Bernardo possedeva e citava, tra gli altri, anche le Quaestiones mercuriales di Giovanni d’Andrea, famoso professore di diritto canonico a Padova e Bologna dove morì per la peste nel 1348. Come pure il commento di Donato Acciaiuoli all’Etica Nicomachea di Aristotele del 1478 e il De prudentia di Pontano. E Nicolò poco più che adolescente comincia a farne buon uso, di questa cultura. Sul palcoscenico di cui Ginzburg muove le scenografie e i personaggi salgono l’inquisizione romana contro Galileo, l’Indice dei libri che marchia lo stesso Machiavelli, in un angolo si nasconde nell’ombra Spinoza con il suo Deus sive natura e le questioni di libero arbitrio che pone, e subito, a far capire le intenzioni ‘attuali’ che Ginzburg coltiva, fa la sua comparsa il ‘nemico’ del filosofo ebreo, Carl Schmitt.

Nelle prime pagine, lo storico si domanda: «Che cosa consente di pensare insieme Machiavelli e Pascal?». Risposta: la teologia politica. E chi più di Schmitt l’ha posta al centro della visione storica e filosofica? «Tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati. Non solo in base al loro sviluppo storico, poiché essi sono passati alla dottrina dello Stato dalla teologia…». Il Dio onnipotente che si specchia nell’onnipotente legislatore, per esempio. Come il primo Adamo trasgredì al suo creatore così tutti gli Adamo degli ultimi secoli tentano di farla al sommo legislatore: lo Stato moderno. E fra legge ed eccezione le risposte che emergono nei secoli di Machiavelli e Pascal oppongono e pongono due possibilità riassunte in queste due formule: simpliciter e secundum quid, la norma assoluta e la legittimità del caso particolare. È una caccia al tesoro dentro le fonti storiche, i falsi, le ricezioni di testi per trovare l’ago nel pagliaio che confermi (o svuoti di fatto) l’ipotesi. Già, qual è l’ipotesi di Ginzburg? Non ne sono certo, ma a un certo punto, Ginzburg accenna alla lettura interlineare di Leo Strauss, un pensatore che ha fornito spunti di riflessione a molti pensatori che hanno affrontato la questione del potere e della sua natura tirannica, vedi Kojève.

Strauss prefigura una dissimulazione fra le righe di qualcosa che non si può dire se non disseminando indizi, ironie, soluzioni antifrastiche. E di queste tecniche dell’inganno il Rinascimento fino al Seicento fu maestro fra cabale, misteriosofie, simboli ermetici e così via. Confesso dunque che avevo un po’ sottovalutato l’appendice finale, quella che invita a “leggere tra le righe” Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Ginzburg infila alla fine una chiave retrospettiva dove “gattopardesco” o “gattopardismo” si misurano con un altro pregiudizio, quello che riguarda “machiavellico” e “machiavellismo”. Ora se, come scrive Ginzburg, «Machiavelli imparò dalla casistica medioevale a riflettere sulla norma e sull’eccezione », così è tutto da dimostrare quello che sosteneva Franco Fortini nel 1959 in una conferenza intitolata Contro “Il Gattopardo”, ovvero «il rifiuto della storia che c’è in questo libro non è rifiuto di questa o quella storia ma rifiuto del mutamento in sé». Il romanzo di Tomasi di Lampedusa è stato fin troppo identificato col pensiero che il protagonista, Tancredi Falconieri, sottopone allo zio, a fronte dell’avanzata garibaldina in Sicilia: «Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?». Da cui la nuova categoria criticopolitica di “gattopardismo”.

Ma l’affermazione di Fortini presupporrebbe che fra autore e protagonista vi sia una sorta di piena identificazione di idee e sguardi. Evidentemente quella dell’autore, in genere di un’opera narrativa, ma spesso anche filosofica e quando è il caso anche tecnica, può rivelarsi una forma di dissimulazione secondo l’idea di Strauss. E qui, per tornare al cuore del libro, la frase di Tancredi Falconieri avrebbe la sua “fonte” proprio in Machiavelli, che nei Discorsi afferma: «Colui che desidera o che vuole riformare uno stato d’una città, a volere che sia accetto e poterlo con satisfazione di ciascuno mantenere, è necessitato a ritenere nell’ombra almanco de’ modi antichi, acciò che a’ popoli non paia aver mutato ordine, ancorché in fatto di ordini nuovi fussero al tutto alieni dai passati…». Perché gli uomini spesso si fanno attrarre dall’apparenza delle cose, non da quello che sono.

E sul “gattopardismo” Ginzburg non può, giustamente, non citare Francesco Orlando, quando scriveva che i pregiudizi «diventati lingua» sono difficili da scalzare. Ma è proprio questo che lo storico cerca di fare in questo libro. Per esempio analizzando la trama e i dialoghi della Mandragola, dove fra Timoteo cerca di convincere la giovane moglie del vecchio giurista a commettere adulterio per concepire un figlio che il marito desidera facendo appello a una serie di giustificazioni che attestano, nell’autore, una frequentazione della casistica. Testimoniata, secondo Ginzburg, anche dalla «spaventosa freddezza con cui ritrae il principe» a tratti simile a quella con cui fra Timoteo sta fuorviando (a fin di bene?) la giovane donna. Legge e necessità, il caso particolare, che riguarda in ambito religioso i direttori di coscienza, ma può avere anche rilevanza politica.

Lo stesso Pascal, feroce critico della casistica e dei gesuiti nelle Provinciali, scrive nei Pensieri che «gli Stati perirebbero se non si facessero piegare spesso le leggi alla necessità, ma la religione non ha mai ceduto a questo e non ne ha approfittato». Benché malvista dalla Chiesa soprattutto degli ultimi due secoli, la casistica ha le sue ragioni, anche se qualcuno la criticò perché poteva dare adito a un lassismo morale nell’eccezione ripetuta che indeboliva la legge. Ma gli ultimi decenni sono stati un periodo di riscoperta della casistica, con l’avvento della bioetica per esempio, e, commenta Ginzburg, «si potrebbe perfino dire che è diventata di moda». Come spesso accade nei libri di Ginzburg, anche quando non si arriva a una prova palmare, la tavola dei segni che lo studioso compone con la sua filologia rende, sulla base del paradigma indiziario, credibile l’ipotesi. Del resto, nota lo studioso, la relazione fra Machievelli e Aristotele- Tommaso «non è mai emersa come un tema d’indagine ammissibile».

Attraverso questa discesa in una vicenda con molti elementi probatori mancanti, lo storico segue Machiavelli dentro la sua evoluzione da Aristotele a una nuova visione più “tecnica”, per così dire, delle forme politiche, più fredda, come una costruzione che assomiglia un’“arte dello Stato”, che sposta la politica dall’ambito dell’agire, secondo Aristotele, a quello del fare. E questo era anche il giudizio di Maritain in un saggio scritto in America nel 1942, ovvero che quella di Machiavelli fosse «una concezione puramente artistica della politica». Un tema anche dei nostri giorni, inquinato però dalla politica spettacolo e dalla manipolazione delle masse. Che rischia di aprire la strada a una tecnocrazia, con qualche sviluppo già sottinteso nella versione di Machiavelli (tanto più se liberata da certi luoghi comuni).

Maurizio Cecchetti

27 gennaio 2019

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