La storia di Hannah Sudlow, che ha dovuto lottare per far nascere sua figlia affetta da Trisomia 18, è l’altra faccia della medaglia della legge di New York sull’aborto. Vale la regola de “il mio corpo, la mia scelta” se la scelta non è l’aborto?
La scelta delle donne. È questo il ritornello con cui si cavalcano battaglie sul diritto all’aborto sempre più spericolate e disumane. Ma se la scelta della donna è tenere il bambino, la sua libertà è altrettanto tutelata?
La storia di Hannah Sudlow, giovane mamma della Virginia, ci mostra l’altra faccia della medaglia del motto “my body, my choice” … il lato oscuro di una scelta libera che è osannata solo se va nella direzione della morte ed è molto meno accudita se sceglie di non scegliere, cioé di riconoscersi madre portando avanti il progetto che comincia col concepimento, magari verso un viaggio in salita a causa di una malattia.
La signora Sudlow ha condiviso un lungo post su Facebook il 23 gennaio, all’indomani dell’approvazione del Reproductive Health Act nello stato di New York, legge di cui ci siamo ampiamente occupati e che di fatto consente l’aborto fino a termine gravidanza. Il racconto dei fatti apre uno squarcio di realtà sull’evidenza che la cultura dell’aborto sia qualcosa di perfettamente strutturato, che va ben oltre la semplice e fittizia premura per le donne. Si dà per scontato, ad esempio, che un feto con malformazioni non sia meritevole di guadagnarsi la nascita.
C’è un cuore forte qui
Sono rimasta incinta subito dopo il fidanzamento. Quando l’ho scoperto, il mondo per come lo conoscevo è crollato. Mi sono vergognata. Mi sono presentata alla visita della sesta settima, ancora incapace di credere alla mia gravidanza. L’addetta ha trovato il battito cardiaco. Era appena la sesta settimana. Il suo unico commento è stato: “C’è un cuore forte qui”. Neanche presagivo quanto sarebbero state potenti quelle parole. (dal profilo Facebook di Hannah Sudlow)
Una gravidanza inattesa cambia volto alla vita di Hannah e a quella del suo fidanzato, che è già diventato marito quando si recano a fare l’ecografia morfologica alla 20 settimana. A quel punto il mondo crolla di nuovo perché l’esame evidenzia grossi problemi al feto. Ancora prima della diagnosi definitiva, le viene detto che va tutto male per quel bambino e non può tenerlo. Più tardi, l’esito dell’amniocentesi svela che si tratta di trisiomia 18: è una rara malattia genetica, nota come sindrome di Edwards, e caratterizzata da un assetto cromosomico alterato; quasi sempre si verifica la morte in età prenatale o poco dopo la nascita.
La condotta dell’ospedale spinge l’acceleratore sull’aborto, cioé sull’anticipare per mano umana la sentenza di morte che la malattia avrebbe già emesso sulla creatura. Oltre all’esito dell’amniocentesi, infatti, Hannah e il marito vengono informati dal personale medico che unginecologo è già stato messo al corrente della situazione ed è stato prenotato un aborto. Che premura, che sollecitudine. In tutta questa procedura, nessuno si è ancora posto il problema di chiedere cosa ne pensa la mamma:
Che ne era de “il mio corpo, la mia scelta”? Quella non era la mia scelta. Io non ero stata interpellata. Telefonai all’ufficio del dottore ed era una persona che non avevo mai incontrato. Non aveva idea di cosa pensassi io. Dopo aver tentato di dire qualcosa tra singhiozzi e urla, lui mi dice che devo stare “riguardata per prendermi cura del bambino dentro di me”. Quel bambino che fino a un’ora prima voleva abortire. Mi hanno fatto uscire dal loro studio.
Per cinque settimane Hannah rimane senza assitenza medica, tutta la premura sanitaria nel programmare un aborto scompare nel momento in cui lei manifesta il diritto di portare a termine la gravidanza. Fortunatamente, la famiglia Sudlow riesce a trovare un dottore che accetta di seguire la nascita di Evelyn. Perché sì, Evelyn è nata e, a dispetto delle statistiche lugubri sulla Trisomia 18 e a dispetto di chi avrebbe inflitto la morte ancora prima della natura, oggi ha due anni. Nonostante la grave inadempienza e latitanza della sanità, le parole di Hannah non sono di condanna ma di invito a lasciarsi stupire dalla vita:
Si profila una grande tragedia a portata di mano constatando che sarebbe stato mille volte più facile programmare un aborto per mia figlia, piuttosto che trovare qualcuno disposto ad assistere ed onorare la mia gravidanza. Non scrivo per condannare, ne ho avuto abbastanza da parte di qualcuno lungo il mio viaggio. Non è mai stata la trama della mia storia. Scrivo come una che aveva disperatamente bisogno della Grazia di Dio quando è entrata in quel posto, e Lui me l’ha offerta cortesemente. Non c’è condanna in Cristo. Scrivo questo per implorarvi di sostenere la vita.
Tutti sono i benvenuti
La nascita è un evento cruciale per ogni essere umano. Di questi tempi bisogna tenere gli occhi spalancati per accorgersi degli invisibili che si vorrebbe sopprimere in silenzio; bisogna che la voce ripeta con insistenza che la nascita non è una dogana umana, una frontiera su cui le nostre mani mortali possono imporre un altolà. Ma le famiglie che accolgono le vite più fragili, quelle segnate da malattie inguaribili ma curabili, sanno che la nascita è l’inizio di una salita ostica. La solitudine è il primo nemico che la famiglia Sudlow ha sentito quando Evelyn è nata: navigare a vista in un mare sconosciuto, fatto di terapie da sperimentare, fatto di accudimento quotidiano da reinventarsi ogni giorno da capo. Può capitare di perdere le staffe, scoraggiarsi, disperarsi.
Hannah racconta che solo a posteriori si è resa conto che tutte le famiglie con figli che hanno bisogni speciali impiegano circa 5 mesi per orientarsi nel confronto serrato con la malattia. L’impatto con cui occorre fare i conti si protrae nel tempo. A quel punto – quando la famiglia ha preso confidenza con una vita riscritta in ogni particolare – non è finita, anzi inizia il viaggio vero e proprio.
Per non lasciare sole altre persone che affrontano lo stesso percorso è stata fondata La casa sull’albero di Evelyn, Evelyn’s Treehouse: è un modo di dire benvenuti a tutti, anche quelli che cominciano la vita nel modo più complicato possibile. Varcare la porta della disabilità o delle gravi malformazioni genetiche è entrare in un territorio irto di paura, dolore, fatica. Ma anche di compagnia e affetto.
Così, Hannah Sudlow ha pensato a questa organizzazione, di cui uno degli obiettivi più concreti è il dono di una borsa di benvenuto per le famiglie come la sua; all’interno si trovano generi di prima necessità insieme a tutte le informazioni per cominciare ad affrontare la vita quotidiana fuori dall’ospedale e offrire indicazioni sui centri medici a cui rivolgersi. Nel sito si legge: “il nostro obiettivo è offrire assistenza a breve termine nella speranza di fare un investimento a lungo termini nella vita di famiglie che ricevono una diagnosi medica complessa”.
Sull’esempio di questa storia, ci costruiremo rifugi soprelevati, case sull’albero alte qualche metro da terra … per non essere affogati dai fiumi di morte che straripano e non fanno vittime solo tra i più piccoli e indifesi, ma anche tra chi crede di tenere salda in mano la spada della libertà, dei propri diritti, di un corpo ridotto a oggetto … che può ancora essere grembo.
Annalisa Teggi
Aleteia, 11 febbraio 2019