Intervista all’arcivescovo di Kinshasa, monsignor Fridolin Ambongo: «Il presidente vincitore delle elezioni non è quello scelto dal popolo. Rischiamo una nuova crisi. La Chiesa non può limitarsi alla Messa: deve occuparsi dell’uomo in tutte le sue dimensioni».
«Senza l’impegno e il sacrificio dei cattolici non avremmo mai, mai, avuto delle elezioni in Congo». Lo sottolinea con forza monsignor Fridolin Ambongo Besungu, che è stato scelto da papa Francesco come arcivescovo della capitale Kinshasa in uno dei momenti più delicati della storia della Repubblica democratica. Quando è diventato coadiutore del cardinale Laurent Monsengwo nel febbraio 2018, infatti, non era passato neanche un mese dalla strage di cristiani del 21 gennaio. Quel giorno i cattolici decisero di manifestare per la seconda volta per chiedere al dittatore Joseph Kabila di rispettare la Costituzione, farsi da parte dopo 18 anni al potere e indire nuove elezioni. Il presidente ha risposto inviando l’esercito a sparare fin dentro le parrocchie e fuori dalle chiese.
Nelle proteste di dicembre e gennaio sono morti così decine di cattolici, ma Kabila «è stato costretto a rinunciare a un terzo mandato». I problemi sono tutt’altro che finiti: le elezioni del dicembre 2018 sono state una farsa grottesca, le premesse per una nuova stagione di violenza «si possono già intravedere ma il popolo non deve scoraggiarsi, deve proteggere la fiammella di speranza che è stata accesa», dichiara monsignor Ambongo a tempi.it. L’arcivescovo, che a novembre è succeduto al carismatico cardinale Monsengwo a capo della diocesi di Kinshasa, si trova attualmente in Francia, dove “Aide à l’Église en detresse” l’ha invitato a parlare della situazione dei cristiani e del Congo in occasione della “Notte dei testimoni“, organizzata in cinque città dal 23 al 29 marzo.
Monsignor Ambongo, qual è la situazione del Congo oggi dopo le stragi del 2017 e del 2018?
Alla fine dell’anno scorso abbiamo avuto quelle elezioni che tutti aspettavano e per le quali i cristiani si sono battuti e sono stati uccisi. I cristiani hanno voluto caricarsi sulle spalle la croce per dare speranza al nostro paese e io sono fiero dei miei fedeli e del mio popolo. I congolesi si sono riversati alle urne e hanno votato per il cambiamento. Purtroppo, come tutti sanno ormai, il presidente che è stato dichiarato vincitore non è il candidato più votato dal popolo.
Come dimostrato dai dati raccolti nei seggi elettorali dagli osservatori della Chiesa e di organismi internazionali, Martin Fayulu ha ottenuto il 62 per cento dei voti, contro il 16 per cento di Felix Tshisekedi. Eppure la Corte costituzionale ha confermato la vittoria di quest’ultimo.
Il popolo è frustrato e scoraggiato, è stata un’enorme negazione della verità. Noi però non possiamo cambiare il passato, ma l’avvenire sì. La Chiesa è a fianco del popolo per garantire un futuro migliore al nostro paese.
Come si possono ristabilire giustizia e pace in una simile situazione?
Questo è il grande tema. Oggi la gente dice: ci avevate detto che il processo democratico avrebbe cambiato il paese e invece guardate il risultato! C’è grande frustrazione, ma bisogna guardare i passi positivi. Grazie al sacrificio dei fedeli, Kabila non è più presidente, anche se l’attuale capo dello Stato non è l’uomo scelto dal popolo. Eppure la situazione sta evolvendo.
Teme che la violenza scoppi di nuovo?
Se succederà, sarà per colpa di chi è al potere. Tshisekedi è al potere per volere di Kabila e ora ci chiediamo: qual è il suo margine di manovra? Dovrà scegliere se fare gli interessi del popolo e seguire la causa per cui si batté suo padre [Étienne Tshisekedi, ex leader dell’opposizione, ndr] oppure servire gli interessi di Kabila. Questa decisione è estremamente difficile. Se non lavorerà per il popolo, verrà disconosciuto e ci sarà una nuova crisi. I germi di una nuova tensione sono già presenti.
Ha conosciuto Tshisekedi? Si fida di lui?
Il problema è che il Parlamento non è nelle sue mani, ma in quelle del partito di Kabila. Anche il governo sarà scelto dal partito dell’ex presidente, che controlla anche l’esercito. Se vorrà fare il bene del popolo, il regime potrebbe mettersi di traverso e noi temiamo anche per la sua sicurezza. Ma le prime decisioni che ha preso sono incoraggianti.
Quali?
Nel rispetto degli Accordi di San Silvestro [avvenuti nel 2016 tra il regime e l’opposizione con la fondamentale mediazione della Chiesa cattolica e dello stesso Ambongo, ndr], ha riaperto i giornali e le radio dell’opposizione che erano stati chiusi. Inoltre, ha liberato i prigionieri politici e permesso il rientro degli esiliati, soprattutto [dei leader politici democratici] Moise Katumbi e Jean-Pierre Bemba. Queste decisioni vanno nella giusta direzione.
Tra i cattolici uccisi dal regime durante le proteste c’è anche Thérèse Kapangala, giovane di 24 anni che stava per entrare nell’ordine delle suore della Sacra famiglia. È stata uccisa subito dopo la Messa dall’esercito fuori dalla chiesa di San Francesco di Sales a Kitembo (nord della capitale). I fedeli chiedono che venga riconosciuta santa: aprirà la causa di canonizzazione?
A gennaio di quest’anno c’è stata una grande celebrazione e si è levata a gran voce la richiesta che sia riconosciuta come martire. È passato ancora troppo poco tempo, dobbiamo riflettere, ma l’idea c’è e per noi è una testimone. Thérèse con l’aiuto di Dio voleva diventare religiosa, era una ragazza piena di vita e ideali, ma è stata uccisa dalla mediocrità e dalla bestialità degli uomini. Dobbiamo seguire il suo esempio perché quello che lei desiderava per il Congo diventi realtà per tutti.
La Chiesa cattolica è l’unica istituzione credibile nel paese ed è molto attiva e coinvolta anche nella vita politica e sociale del Congo. Perché?
Qual è la missione della Chiesa cattolica? Aiutare gli uomini e le donne a diventare santi. Tutti hanno la vocazione alla santità e i santi sono persone che vivono con sentimenti di fraternità, giustizia e pace. Sono persone che accedono alla felicità che Dio ci ha promesso già sulla terra. Ma la Chiesa non può pensare di seguire la sua missione limitandosi ad amministrare i sacramenti e a fare la Messa la domenica, senza tenere conto delle reali condizioni in cui vivono i suoi figli chiamati alla santità. La Chiesa deve occuparsi dell’uomo in tutte le sue dimensioni seguendo l’esempio di Gesù Cristo. Gesù non è venuto sulla terra solo per occuparsi dei battezzati: ha guarito i malati, ha sofferto con chi soffre, ha dato da mangiare agli affamati e ha affrontato il potere politico dei romani e le autorità politico-religiose di Israele. Li ha messi davanti al suo insegnamento. Questo deve fare la Chiesa anche oggi.
Lei è stato nominato arcivescovo di Kinshasa in un momento difficilissimo della vita del Congo. Come ha reagito?
Nel 2016 papa Francesco mi ha nominato arcivescovo di Mbandaka e dopo appena due anni di Kinshasa. Sono riconoscente alla Chiesa e al Papa che mi hanno dimostrato così tanta fiducia, facendo affidamento su di me in un momento così pericoloso. Allo stesso tempo mi rendo conto di essere così piccolo davanti al compito che mi è stato affidato, ma mi sono detto: quando il Signore chiama, dona anche la grazia e la forza per portare a termine il compito che ci affida. Sono incoraggiato dal popolo, che conta su di me, e ho scelto questo motto episcopale: “Omnia omnibus”. Sono qui per essere tutto per tutti e vorrei che i fedeli marciassero insieme a me per ridare speranza al nostro popolo. Collaborerò con tutti: buoni e cattivi.
Ha preso il posto di un leader estremamente carismatico, il cardinale Laurent Monsengwo Pasniya, che dopo la caduta del dittatore Mobutu nel 1997 sarebbe addirittura potuto diventare presidente del paese, se non si fosse rifiutato. Che cosa le ha insegnato?
Lo conosco fin dalla mia giovinezza e apprezzo enormemente la sua passione per il popolo, che mi ha trasmesso e che condivido con lui. Posso dire che il mio ministero sarà in continuità con il suo.
Leone Grotti
25 marzo 2019
«Se il Congo ha fatto progressi è grazie al sacrificio dei cattolici»