La storia di una donna che lavora nell’ospedale che le ha salvato la vita e quella di altri prematuri nell’era dell’aborto tardivo.
Terapia intensiva neonatale del Centro medico pediatrico McLane Baylor Scott & White, Texas. Tammy armeggia con mano sicura e delicata nelle incubatrici, avvolta da un silenzio denso di lievissime oscillazioni, di battiti, di luci intermittenti dei monitor, di tracciati del cuore e del respiro. È qui che, lasciate a casa le urla allegre e furibonde dei suoi figli di tre e sei anni, Tammy si occupa di vegliare i bambini venuti al mondo troppo presto, collegarli con i tubicini trasparenti ai ventilatori, osservare un petto minuscolo alzarsi e abbassarsi mentre un alito di ossigeno riempie i polmoni. Sa che ogni sussulto di creatura grande quanto la mano di un uomo è il sussulto della vita in persona, che ogni prematuro appeso a un filo di gomma è una persona attaccata al suo destino. Lo sa perché trentaquattro anni prima era una di loro.
LA PIÙ PICCOLA SOPRAVVISSUTA DEL TEXAS
Tammy Lewis non è un medico qualunque. È stata la bambina più piccola mai nata in Texas, e ad oggi resta la più piccola sopravvissuta in tutto lo Stato. Quando è nata, a sole 24 settimane, pesava circa 560 grammi e aveva solo fra il 5 e il 10 per cento di probabilità di farcela. A dare la notizia ai suoi genitori ammutoliti, e prendersi poi cura di lei furono proprio i medici del McLane, che allora si chiamava solo Scott and White Hospital. Per tre mesi e mezzo Tammy, grande come la mano del suo papà restò accoccolata a una ragnatela di tubicini in terapia intensiva. Poi un giorno, i polmoni della microprematura iniziarono a funzionare da soli.
«VOLEVO RESTITUIRE LA CURA RICEVUTA»
La storia di Tammy, bella, bionda, perfettamente in salute, ha commosso anche la Cnn che ha raggiunto l’ospedale per chiederle come mai avesse scelto di lavorare a fianco degli stessi medici che l’avevano curata da bambina, e dopo la Cnn molti giornali hanno voluto occuparsi di lei. Alle domande Tammy ha risposto semplicemente: «Volevo poter restituire quanto ho ricevuto io». Fin dalla scuola Tammy sognava di tornare al McLane, «sapevo che volevo lavorare con i bambini, non solo bambini, ma bambini in terapia intensiva neonatale. Non molte persone possono dire di essere finite a lavorare dove sono nate, per prendersi cura dello stesso tipo di pazienti che sono state, e restituire loro le stesse cure ricevute».
«CI SONO STORIE DI SUCCESSO»
Oggi il McLane, a cui fa riferimento il cuore del Texas, è riconosciuto a livello internazionale come unità di terapia intensiva neonatale di massimo grado e sono centinaia i genitori che hanno affidato i loro figli alle mani esperte di Tammy e le loro paure al suo ascolto. Tammy ha imparato a riconoscerle, quelle domande tacite e dolorose che madri e padri, in camice sterile, le rivolgono alzando lo sguardo dalle incubatrici, ha imparato a somministrare ossigeno ai bambini e speranza agli adulti, «ci sono storie di successo, e io sono una di queste». Esiste in ospedale una Hall of Hope, dove si raccontano i viaggi difficili dei bambini prematuri: tra le altre, c’è la gigantografia di una sorridente Tammy che ausculta il cuore di un piccolo: «Nata a 24 settimane, 1 libbra e 4 once», inizia così la didascalia che la descrive mamma di due bambini che lavora per dare speranza nello stesso ospedale che si prese cura di lei.
COURTNEY, OTTO CUCCHIAINI DI SANGUE IN CORPO
La sua storia è stata paragonata a quella di Courtney Jackson, nata a sole 23 settimane nel 2001, un chilo di peso e otto cucchiaini di sangue in corpo. Anche Courtney è una “micro-preemie”, la più piccola di tutti i bambini prematuri che ricordi la University of Iowa Hospitals and Clinics, dove è nata il 19 giugno di 18 anni fa. Si laureerà a maggio. E poi ci sono le gemelline Keeley James e Kambry Lee Ewoldt, nate a 22 settimane e un giorno il 24 novembre scorso sempre all’University of Iowa Stead Family Children’s Hospital, tra il 22 per cento degli ospedali statunitensi che forniscono assistenza attiva a bambini nati a 22 settimane di gestazione.
Nel 2016, tra i quasi 4 milioni di nati vivi negli Stati Uniti, 1.857 bambini avevano appena 22 settimane, ha spiegato il neonatologo Jonathan Klein al Washington Times: «Per i bambini di 22 settimane sopravvivere è un evento incredibilmente raro. A livello nazionale la sopravvivenza è di circa il 10 per cento; qui da noi, negli ultimi 10 anni, è del 65 per cento, il 650 per cento in più rispetto alla media del paese». Molti considerano i bambini di età inferiore a 24 settimane incapaci di sopravvivere «ma noi sappiamo che è possibile», spiega Klein, alla guida di una struttura di massima eccellenza, aggiungendo che «sulla base delle nostre strategie di cura neuroprotettiva, solo il 10 per cento di questi bambini presenta disabilità a lungo termine, come cecità, sordità, problemi cognitivi».
“BAMBINI”, NON È UNA QUESTIONE SEMANTICA
Quando sono nate Keeley e Kambry erano lunghe quanto un biglietto da un dollaro. Hanno recuperato peso e salute: il ritorno a casa delle bambine è previsto per il 29 marzo. Notate bene, di “bambini” di 22, 23 e 24 settimane parla Tammy, paziente, medico e genitore, di “bambini” parlano i medici, di “bambini” parlano le mamme e i papà che popolano la cittadella silenziosa delle creature intrecciate ai fili delle terapie intensive neonatali. Non è solo una questione semantica in tempi di leggi e di gente che si sgola per autorizzare gli “aborti tardivi” dei “feti” oltre la 24esima settimana di gravidanza.
Caterina Giojelli
30 marzo 2019
Cosa ci insegna Tammy, il medico che fu la bambina più piccola del Texas