In una conferenza tenuta a Londra nel 1921 e finora mai pubblicata, la grande pedagogista chiarisce la sua posizione sul peccato originale.
Non se ne parlava da un po’, anche se da un po’ di tempo non si parla d’altro. Fateci caso: film e romanzi, serie televisive e inchieste giornalistiche non fanno altro che promettere rivelazioni sulle radici del male, eppure non menzionano mai il peccato originale. E sì che per secoli non abbiamo potuto farne a meno. Snodo cruciale per la Riforma, il peccato originale rappresentava un ingombrante ostacolo ancora per Immanuel Kant, che nella Religione entro i limiti della sola ragione cercò di cavarsela elaborando la nozione – non priva di ambiguità – di “male radicale”. È una storia solo in apparenza conosciuta, quella del peccato originale in sede speculativa e morale. A un’osservazione più ravvicinata, infatti, questa vicenda più che millenaria rivela implicazioni inattese e chiama in causa testimoni imprevedibili. Come Maria Montessori (18701952), la grande pedagogista le cui personali convinzioni in materia di peccato originale furono spesso criticate e fraintese, tanto da accreditare il pregiudizio di un’origine scientista e laicista del proverbiale “metodo”. Una serie di equivoci che hanno quasi del tutto messo in ombra le origini cattoliche dell’avventura montessoriana e perfino la fede tenacemente professata dalla fondatrice. Fanno chiarezza su questa dimensione – nello stesso tempo scientifica e mistica – del montessorismo gli studi di Fulvio De Giorgi, professore di Storia dell’educazione all’Università di Modena e Reggio Emilia. Autore di saggi importanti, De Giorgi è anche il curatore di molti scritti montessoriani inediti o rari, a partire dal piccolo libro su Dio e il bambino uscito nei Paesi Bassi alla vigilia della Seconda guerra mondiale e pubblicato in Italia sono nel 2013, in un volume allestito appunto da De Giorgi.
Adesso tocca a Il Peccato Originale (Scholé, pagine 208, euro 15,50), conferenza tenuta da Maria Montessori a Londra nel 1921, nel pieno di un dibattito che da teologico si sarebbe fatto da lì a breve politico, come De Giorgi puntualmente illustra nell’ampia postfazione. Oltre al testo italiano dell’intervento e alla relativa versione inglese, il volume ospita anche un breve articolo del 1931, dal titolo in parte sfuggente I reattivi psichici, nel quale la questione viene affrontata in maniera indiretta, ma non per questo meno efficace. Partiamo da qui, ossia dalle due citazioni bibliche che Maria Montessori adopera come cartina di tornasole (come “reattivo”, dunque) delle diverse sensibilità pedagogiche. La prima viene dal Libro dei Proverbi e richiama al dovere di castigare i fanciulli con la verga per salvarli dalla dannazione: in questo contesto, osserva Maria Montessori, il bambino non si differenzia in nulla dallo schiavo, non solo perché è di fatto ridotto a «proprietà » dell’adulto, ma anche e principalmente perché lo si considera irrimediabilmente assoggettato al peccato. Di tutt’altro tipo è invece la prospettiva suggerita da Paolo nella Prima lettera ai Corinzi. Paziente e benigna, «non astiosa» né «insolente», la carità detta il programma di un’educazione veramente umana e liberante. Seguire un modello diverso, avverte ancora Maria Montessori, significherebbe confinare i bambini «in un angolo senza luce nel nostro cuore». Osservazioni che oggi suonano incontestabili, ma che all’epoca risultavano in contrasto con i criteri della pedagogia tradizionale, anche in ambito cattolico. Il percorso della nuova educazione (che nel linguaggio montessoriano assume i connotati di una «nuova creazione ») si intreccia e in parte sovrappone con quello del modernismo.
Nel 1929, nella fattispecie, nell’enciclica Divini Illius Magistri Pio XI condanna il cosiddetto naturalismo pedagogico, la cui indole permissiva deriverebbe dal mancato riconoscimento della colpa che l’essere umano porta in sé dalla nascita. Il fronte è lo stesso sul quale si muoveva nel 1907 l’enciclica antimodernista di Pio X, Pascendi Dominci Gregis, solo che adesso le osservazioni sul peccato originale si sono fatte più esplicite, così da implicare ricadute pratiche tutt’altro che irrilevanti, anche per quanto riguarda l’operato delle scuole montessoriane. Un sospetto di lassismo, del resto, accompagnava da tempo l’esperienza delle Case dei Bambini. Al parziale apprezzamento del gesuita padre Mario Barbera si contrapponeva la rigidità espressa dal fondatore dell’Università Cattolica, padre Agostino Gemelli, portavoce dello schieramento – allora maggioritario – di quanti consideravano la lotta alle conseguenze del peccato originale come premessa irrinunciabile del progetto educativo cattolico. Una situazione già di per sé complessa, resa ancor più delicata dalle pretese del regime fascista, il cui programma di educazione di Stato finì per accentuare il carattere secolare della nuova pedagogia.
Pur irriducibile a ogni schematismo, il montessorismo si trovò al centro di tutte queste tensioni, che ne resero sempre meno evidente la componente religiosa. Al «Peccato Originale» (e con tanto di maisucole), però, Maria Montessori non aveva mai smesso di credere. Lo ribadisce la conferenza londinese, tenuta presso il convento delle suore dell’Assunzione. In queste pagine la libertà del bambino è messa al centro del progetto educativo e, nello stesso tempo, distinta dalla deriva dell’«abbandono» permissivo. Non si tratta di «ottimismo esagerato», afferma la pedagogista. Per superare il «grande malinteso che esiste tra l’adulto e il bambino» occorre infatti ammettere che il peccato è semmai dell’educatore, non del «fanciullo battezzato», nel quale si esprime la pienezza della grazia. «Il fanciullo è migliore di noi» non perché privo peccato, ma perché dal peccato è stato liberato, diventando «espressione di vita umana tanto più pura di noi». Un buon motivo per testimoniare la carità, insomma, e per mettere da parte la verga.
Alessandro Zaccuri
23 aprile 2019
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