Colombo: Di fronte alla drammatica vicenda di Vincent Lambert non possiamo rimanere indifferenti

Nel corso dei secoli singoli uomini, famiglie, categorie di soggetti, popolazioni o intere etnie hanno subito ingiustizie, discriminazioni e violenze. La storia integrale delle lacrime, del sangue e della morte da esse prodotte resta ancora da scrivere. E nuove pagine si aggiungono anche oggi. Tra di esse sono da annoverare quelle che Papa Francesco ha ripetutamente additato — con un’efficace immagine — come i prodotti della “cultura dello scarto”: donne, bambini (nati e non ancora nati) e uomini “colpevoli” solo di essere “diversi” perché unfit (incapaci, disabili, non adatti alla vita).
Le “non-ragioni” per questa esclusione dal novero dei meritevoli di accoglienza, rispetto e tutela (per dirlo con una parola, di amore) vanno dal colore della pelle alla terra di provenienza, dalla miseria materiale o morale alla religione professata, dai difetti dello sviluppo psicofisico prenatale e infantile alla senescenza segnata da gravi patologie degenerative, dagli stadi terminali della malattia inguaribile agli stati di assente o minima coscienza e relazionalità.

L’accoglienza, il rispetto e la tutela di ogni vita umana, in qualunque condizione si trovi, è oggi il punto più debole (eppure decisivo) della società, della politica e dello stato. Non accogliere tutti equivale a scartare qualcuno, praticamente a farlo fuori (moralmente, giuridicamente o fisicamente): tertium non datur.

Se questo è accaduto anche in passato, ciò che ferisce il cuore e indigna l’animo — e rende inaccettabile la “congiura del silenzio” imposta dal “politicamente (s)corretto” — è, al presente, il sovrapporsi di una “cultura dell’indifferenza” trasversale alle società e alle politiche. «Quest’attitudine egoistica, di indifferenza, ha preso oggi una dimensione mondiale, a tal punto che possiamo parlare di una globalizzazione dell’indifferenza. […] L’indifferenza verso il prossimo e verso Dio è una reale tentazione anche per noi cristiani». Noi che abbiamo conosciuto che «Dio non è indifferente al mondo, ma lo ama fino a dare il suo Figlio per la salvezza di ogni uomo» (Papa Francesco, Messaggio per la Quaresima 2015).

In questi giorni siamo provocati dagli ultimi sviluppi di una drammatica vicenda umana, familiare, clinica, etica e giuridica che ha avuto origine agli inizi del decennio corrente. Nel Centre Hospitalier Universitaire (Chu) di Reims, Francia, un uomo di 42 anni, Vincent Lambert, è ricoverato da dieci anni in conseguenza di un trauma cranico legato ad incidente stradale e che ora lo fa vivere in uno stato clinico diagnosticato da alcuni specialisti come “di coscienza minima” (état pauci-relationnel o état de conscience minimal plus) e da altri come “vegetativo cronico” (état végétatif chronique). Dopo una lunga vicenda medico-legale e giudiziaria, che ha recentemente visto entrare in merito anche corti e comitati internazionali, i medici del Chu che hanno chiesto di sospendere ogni cura, anche quelle fisiologicamente essenziali per la vita (non sono in corso terapie specifiche volte a sanare la patologia cerebrale di cui soffre in quanto non sono disponibili trattamenti medici o chirurgici appropriati) come l’idratazione e la nutrizione, sembrano ormai quasi arrivati alla data in cui attueranno — con l’autorizzazione del tribunale amministrativo competente — il loro proposito di morte, sostenuti in questo dalla moglie di Vincent, ma strenuamente avversati dai suoi genitori, che difendono il diritto alla vita del loro figlio.

Pur trovandosi in una condizione di grave incapacità relazionale con il mondo esterno e le persone a lui vicine (nulla potendosi dire con ragionevole certezza sulla eventuale riduzione o assenza della sua “coscienza interna” o “profonda”), il paziente non è connesso ad un ventilatore (la respirazione è autonoma) né sottoposto a stimolazione cardiaca (il battito è spontaneo), e neppure oggetto di terapie intensive o subintensive che possano configurare una situazione clinica ed etica di “accanimento terapeutico”.

I periti clinici nominati dal tribunale amministrativo di Châlons-en-Champagne nel novembre 2018 «considerano che la risposta ai bisogni fondamentali primari (alimentazione, idratazione, escrezione, prevenzione cutanea, igiene di base) non configura, per certi pazienti in stato vegetativo comprovato, come per Vincent Lambert, un accanimento terapeutico [“acharnement thérapeutique”] o una ostinazione irragionevole [“obstination déraisonnable”]» (Rapport, p. 24).

Alla stessa conclusione erano giunti 70 medici e specialisti clinici che avevano studiato i dati disponibili del paziente, aggiungendo inoltre che «è evidente che Vincent Lambert non è in fin di vita» e le sue condizioni cliniche, pur gravi, sono abbastanza stabili (pubblicato in: «Le Figaro», 18 aprile 2018).

Questa obiettiva osservazione clinica esclude che sia appropriato medicalmente e corretto eticamente applicare a questo malato il giusto principio di rispettare il sopraggiungere ormai inevitabile della morte e non opporsi al decorso naturale dell’agonia con interventi inappropriati che prolungano solamente la sofferenza del morente. Come ha ricordato Papa Francesco, solo quando il malato versa in queste condizioni, rispettarne il decorso naturale senza accanimento terapeutico costituisce «una scelta che assume responsabilmente il limite della condizione umana mortale, nel momento in cui prende atto di non poterlo più contrastare. “Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire”, come specifica il Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 2278). Questa differenza di prospettiva restituisce umanità all’accompagnamento del morire, senza aprire giustificazioni alla soppressione del vivere. Vediamo bene, infatti, che non attivare mezzi sproporzionati o sospenderne l’uso, equivale a evitare l’accanimento terapeutico, cioè compiere un’azione che ha un significato etico completamente diverso dall’eutanasia, che rimane sempre illecita, in quanto si propone di interrompere la vita, procurando la morte» (Messaggio ai partecipanti al Meeting Regionale Europeo della World Medical Association sulle questioni di “fine vita”, 7 novembre 2017).

Proprio l’interruzione della vita del paziente in stato di coscienza minima o vegetativo risulta essere, nell’oggetto scelto e nell’intenzione dell’azione, l’effetto della sospensione di idratazione e nutrizione, come ha ricordato la Congregazione per la dottrina della fede proprio in riferimento al caso di questi malati cronici: «La somministrazione di cibo e acqua, anche per vie artificiali, è in linea di principio un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita. Essa è quindi obbligatoria, nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente. In tal modo si evitano le sofferenze e la morte dovute all’inanizione e alla disidratazione. […] Un paziente in “stato vegetativo permanente” è una persona, con la sua dignità umana fondamentale, alla quale sono perciò dovute le cure ordinarie e proporzionate, che comprendono, in linea di principio, la somministrazione di acqua e cibo, anche per vie artificiali» (Risposte a quesiti della Conferenza Episcopale Statunitense circa l’alimentazione e l’idratazione artificiali, 1 agosto 2007).

Come hanno ricordato recentemente l’arcivescovo di Reims, monsignor Éric de Moulins-Beaufort, e il vescovo ausiliare della stessa diocesi, monsignor Bruno Feillet, nella situazione di Vincent «è in gioco l’onore di una società umana non lasciare che uno dei suoi membri muoia di fame o di sete e fare tutto il possibile per mantenere fino alla fine le cure appropriate. Permettersi di rinunciarvi perché una tale cura ha un costo o perché sarebbe inutile lasciar vivere la persona umana rovinerebbe lo sforzo della nostra civiltà. La grandezza dell’umanità consiste nel considerare come inalienabile e inviolabile la dignità dei suoi membri, specialmente i più fragili», in qualunque condizione essi si trovino. «Preghiamo ancora e invitiamo a pregare affinché la nostra società francese non si impegni sulla via dell’eutanasia» (13 maggio 2019). E «l’eutanasia è una grave violazione della Legge di Dio, in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana. […] Per eutanasia in senso vero e proprio si deve intendere un’azione o un’omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore» (San Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Evangelium vitae, n. 65).

Attirando «l’attenzione di nuovo su Vincent Lambert», Papa Francesco già un anno fa ha sottolineato: «Vorrei ribadire e confermare che l’unico padrone della vita dall’inizio alla fine naturale è Dio. Il nostro dovere è fare di tutto per custodire la vita», anche di un malato come lui. Un dovere morale e civile che non ci può lasciare indifferenti finché la vita di questi nostri fratelli e sorelle in stato di coscienza minima o vegetativo — in Europa ve ne sono decine di migliaia — non venga adeguatamente tutelata, accolta e promossa, sottraendoli all’abbandono sanitario e all’eutanasia attraverso cure adeguate e luoghi di cura idonei che coinvolgano non solo le équipe di specialisti, ma anche i familiari e gli amici.

Staccare l’idratazione e la nutrizione significa spegnere la corrente elettrica che consente al nostro sistema nervoso di controllare il buon funzionamento del nostro corpo e non fornire più metaboliti, energia, elettroliti e acqua per la fisiologia umana. È contro la vita e la dignità della persona. Anche se una legge o una sentenza consentono questa azione, essa resta inaccettabile e indegna di una società fondata sul rispetto e l’accoglienza della vita di tutti.

Roberto Colombo – Facoltà di Medicina e Chirurgia Università Cattolica del Sacro Cuore

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