Negli ultimi cinquant’anni la popolazione delle città si è accresciuta in modo esponenziale, sicché oggi la maggior parte degli uomini e delle donne del mondo abita la città, le megalopoli, a tal punto che si può affermare di essere ormai in presenza di una grande città globale. Le popolazioni abbandonano inesorabilmente le campagne e gli spazi rurali per convergere verso queste immense città che sono luogo di trasformazione di identità, di vita, di visioni e di stili: un vero e proprio laboratorio della nuova umanizzazione. Questo nostro secolo è iniziato come epoca delle città ed è difficile prevederne gli esiti e le direzioni.
La città è una realtà sorta per proteggere l’umanità e per favorire processi di umanizzazione nella socialità. Ciò si oppone al pericolo di un nomadismo che de-situa l’uomo e non gli permette di custodire, lavorare e “regnare” sulla terra; si oppone all’assolutezza del clan che fornisce un’identità imprigionata nello spazio della somiglianza e della parentela; si oppone all’isolamento derivante da uno scambio raro e dal difficile incontro con gli altri. La città è stata ed è il luogo per eccellenza della costruzione e della manifestazione dell’umanità, il luogo più fecondo per l’esaltazione dell’ethos, proprio perché costruire una città significa fare un’opera architettonica etica, che plasma il rapporto delle persone tra loro.
Ma di fronte al fenomeno “città” i cristiani, che la abitano e partecipano da concittadini alla sua edificazione, quale relazione sanno tessere e che postura devono tenere? La città è una realtà che da almeno tre millenni registra il confronto dei credenti nel Dio di Abramo con essa e con ciò che essa rappresenta nel mondo. Non è facile delineare questo rapporto vissuto in modo differente nelle epoche e nelle aree culturali diverse. Si potrebbe affermare che la città porta sempre il segno dell’ambiguità e che il giudizio su di essa oscilla tra la condanna della città violenta e omicida e l’invocazione della città della pace, una città futura che sembra poter discendere solo come dono dall’alto. I credenti, dunque, sono sempre abitanti della città ma vivono al suo interno la condizione di pellegrini e viandanti, e pur non avendo esenzioni nei suoi confronti, non si identificano mai con la città che abitano.
In questo breve contributo potrò solo fare allusioni ad alcune città che nella Bibbia acquistano un valore emblematico e, di conseguenza, possono offrire un messaggio eloquente per il nostro oggi. Va subito constatato che nelle prime pagine della Bibbia la città appare sotto un segno negativo. È Caino, l’omicida fratricida, il primo costruttore di una città, che chiama Enoch, come il figlio che aveva generato (cf. Gen 4,17). In questa affermazione vi è un’impronta cupa, originata da una cultura che giudicava negativamente il fenomeno dell’urbanizzazione e l’abbandono della vita nomade. La città permette un’epifania del male, della violenza, molto più della vita nomade o di campagna, quindi è subito assimilata alle realtà dei bassifondi, delle periferie infernali, dell’organizzazione della malavita e del vizio. Nelle città nascono le arti, si sviluppa l’artigianato, ma si instaura anche più facilmente la prostituzione (cf. Gen 4,21-22). Per questo è stato possibile ripetere tristemente: “Dio fece il primo giardino, Caino fece la prima città”.
Proprio in questa visione pessimistica della città, sempre all’interno dei primi capitoli della Genesi, per denunciare il peccato sociale viene descritta la costruzione da parte degli uomini della città di Babel, “porta di Dio”(cf. Gen 11,1-9). Babele è la città che si rivolta contro Dio, la città idolatrica che vuole occupare il cielo, negare il Dio vivente e celebrare l’uomo; è la città totalitaria e autosufficiente, la megalopoli che, invece di sottomettere la terra, scala il cielo; è la città dell’alienazione, che crea schiavi, oppressi e nega ogni alterità e diversità. Questa città, che sappiamo avere la massima incarnazione nell’impero totalitario di Babilonia, assume nella Bibbia un valore simbolico: i profeti la condannano, le indirizzano “guai” e avvertimenti, ne predicano la distruzione. I credenti dovranno dunque sempre opporsi a Babele, incarnata nel potere totalitario e violento dei babilonesi, degli assiri, dei sovrani ellenisti e dell’imperialismo romano… Per Isaia, Geremia e gli altri profeti, fino all’Apocalisse di Giovanni, la città di Babele/Babilonia riunisce in sé tutte le perversioni della storia e le alienazioni dell’umanità oppressa.
Ma di fronte a Babilonia ecco l’annuncio della città della giustizia e della pace, Gerusalemme, la città di Dio perché da lui voluta, dotata di una vocazione centripeta per tutti i popoli e le genti, vocazione alla comunione, all’unità, alla fraternità: è “la città di Dio con gli uomini” (cf. Ap 21,3). Per quattrocento anni Gerusalemme è stata la città del Messia, quella in cui Dio aveva posto la sua presenza nel tempio costruito da Salomone. Venne poi distrutta dai babilonesi nel 587 a.C. e poi ancora ricostruita secondo la profezia e la volontà del suo Signore, per essere segno di una città che scende dall’alto, il cui architetto e costruttore è solo Dio (cf. Eb 11,10). L’ultima parte del libro di Isaia (cf. Is 56-66) contiene un canto profetico alla nuova Gerusalemme, città ombelico di tutta la terra, luogo di incontro per tutte le genti e tutte le culture, che vi riconosceranno la presenza dell’unico Signore, il Vivente, il Dio di Israele.
L’Apocalisse di Giovanni, chiusura e sigillo di tutta la rivelazione biblica, dedica significativamente gli ultimi suoi capitoli al giudizio su Babilonia (cf. Ap 17-20) e alla venuta gloriosa della Gerusalemme celeste (cf. Ap 21-22): una città gloriosa, dove il sole non tramonta; dove non ci sono più né morte, né pianto né violenza; dove Dio asciuga le lacrime dagli occhi degli esseri umani e abita per sempre con loro, insieme all’Agnello, vittima nella storia ma vivente e regnante in questa città santa che accoglie tutta l’umanità.
Nel frattempo, i credenti vivono predisponendo tutto per l’avvento di questa Gerusalemme che scende dal cielo, cioè del regno di Dio. Vivono nelle città che sono toccate loro in sorte; vivono da stranieri e pellegrini (cf. Eb 11,13; 1Pt 2,11), senza essere esenti in nulla dalla solidarietà e dalla compagnia con gli uomini; vivono dando la testimonianza della loro partecipazione alla vita della città terrena, la polis, ma sapendo che la loro cittadinanza è nel cielo (cf. Fil 3,20). Tutti elementi messi in luce da quello splendido testo delle origini cristiane che è l’A Diogneto.
Sì, i cristiani abitano a Babele, ma si oppongono all’idolatria che la ispira; abitano a Sodoma, ma resistono alla tentazione di non ospitare, anzi di divorare e sfruttare gli stranieri che giungono nelle città; abitano a Babilonia e a Roma, ma indicano cammini per una convivenza bella, buona e pacifica. E fanno questo fino a pagare un caro prezzo: accettano, se necessario, di essere cacciati dalle città, di essere perseguitati al loro interno. La loro vocazione di cristiani, infatti, impedisce loro di disertare, di isolarsi dalla città terrena che è sempre Babilonia e, insieme, Gerusalemme.
Vita Pastorale – Dossier –
FESTIVAL BIBLICO 2019.
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