A partire soprattutto dalla Riforma Tridentina sorse, in ripresa della più antica tradizione cristiana risalente ai Padri del deserto, un trattato specifico di morale per la formazione sacerdotale e per la guida delle anime, soprattutto religiose e sacerdotali, ad una più alta perfezione ed alla santità, sotto il titolo di «teologia ascetica e mistica», in risposta all’etica luterana, che, sotto pretesto che ogni credente, laico o ministro, è guidato soltanto e direttamente dallo Spirito Santo, respingeva, come condizioni per salvarsi, la mediazione della Chiesa e dei sacramenti, l’esercizio nelle buone opere e lo sforzo metodico, per dominare le passioni, elementi da lui visti come inutili fonti di scrupoli e di presunzione, nonchè pretesa di sentirsi giusti e di meritare davanti a Dio.
La risposta tridentina a Lutero è stata certo efficace, mostrando come lo sforzo ascetico non è vano, ma condotto con equilibrio e moderazione, soccorso dalla grazia, produce copiosi frutti di virtù, come poi fu testimoniato dalla ricchissima fioritura di santità, alla quale dette luogo l’applicazione delle direttive conciliari. Il Concilio di Trento non toccò invece il tema della mistica. Ciò non impedì che comunque ci fosse nei secoli seguenti una fioritura di Autori mistici e teologi della mistica, nonchè una forte ripresa della vita monastica e contemplativa.
Tuttavia, la persistenza della spiritualità protestante, che nel frattempo, soprattutto nel sec.XIX, si era trasformata con Hegel in un vero e proprio panteismo, che avrebbe in seguito favorito il modernismo, richiedeva un nuovo impegnativo intervento della Chiesa, nel tentativo di affrontare nuovamente in dialogo ecumenico il grande tema dell’ascetica e della mistica.
E così si è addivenuti al grande evento del Concilio Vaticano II, il quale, per la verità, non è entrato ex professo nel tema; e tuttavia non è difficile ricavare dai documenti conciliari, soprattutto quelli dedicati alla vita religiosa e dal n.4 del c.I, nonchè dai cc.V, VI e VII della Lumen Gentium, degli spunti importanti per il rinnovamento del trattato di ascetica e mistica.
Purtroppo è successo invece che da molte parti si sia creduto che questo trattato avesse fatto il suo tempo e così è avvenuto che nella formazione sacerdotale e della cultura cattolica si sia trascurata l’importante materia da esso svolta, con grave danno per la spiritualità sacerdotale e cattolica in genere. Certamente il trattato aveva bisogno di essere rinnovato, assumendo la nuova impostazione del Concilio, il quale mette in luce la prospettiva escatologica nell’acquisto della santità e nel progresso delle virtù. Ma occorreva mantenere il confronto con la spiritualità luterana.
Confronto con Lutero
Ricordiamo, allora, che Lutero, come è noto, troppo impressionato sin da giovane monaco dalla corruzione della natura umana e della sua fragilità personale, conseguenti al peccato originale, ed inizialmente aspirante ad una perfezione assoluta impossibile su questa terra, giunse ad abbandonare il suo impegno monastico ed a respingere l’utilità e la necessità delle buone opere e del libero arbitrio per salvarsi.
Respinse inoltre il concetto di etica naturale, che S.Tommaso aveva ricavato da Aristotele, ma che aveva fondamento di fede nella Scrittura, per esempio in S.Paolo (Rm 2,14) o nel decalogo mosaico. Egli infatti credette che la morale evangelica si potesse e si dovesse riassumere nella sola confidenza incondizionata nella misericordia divina (sola fides), nonostante l’invincibilità della concupiscenza, la permanenza del peccato (peccatum permanens) e l’impossibilità di osservare i precetti del decalogo e le leggi della Chiesa, che pertanto diventavano facoltativi, mentre la cosa essenziale era il mettersi a totale disposizione dello Spirito Santo, senza tener conto dei dogmi, delle pratiche e dei riti comandati dalla Chiesa, che per lui erano ingannevoli residui del farisaismo e del paganesimo. Credette, quindi, di riscoprire l’autentica ed evangelica Chiesa di Cristo sostituendosi all’ufficio del Papa col far credere ai suoi seguaci che il vero continuatore dell’opera di Cristo era lui e non il papato.
Lutero dimenticò, con la sua pretesa di conoscere infallibilmente la Parola di Dio mediante il contato diretto con la Scrittura, che essa, come ci avverte S.Pietro, non può andar soggetta a «privata spiegazione» (II Pt 1,20), ma che, se l’opera degli esegeti e dei biblisti è comunque utile e preziosa come aiuto al Magistero, essi non possono presumere gnosticamente di illuminare o correggere l’insegnamento pubblico di coloro, che per mandato di Cristo sono gli interpreti ufficiali, ossia i successori degli apostoli sotto la guida inappellabile dei Sommi Pontefici.
Invece dobbiamo ricordare che noi riceviamo la Bibbia dalla Chiesa, e che quindi la lettura della Bibbia deve avvenire nella Chiesa e con la Chiesa, perché è la Chiesa che ha messo per iscritto le Parole del Signore e le custodisce fedelmente, integralmente ed immutabilmente sotto l’assistenza dello Spirito Santo fino alla fine dei secoli. La Bibbia vive solo nel seno della Chiesa come il feto vive solo nel seno della madre. Pretendere, come fece Lutero, di toglierla da questo seno per conservarla per proprio conto col pretesto dello Spirito Santo dato ad ogni cristiano, è come uno che pretenda di far vivere un feto fuori del seno della madre senza alcun sussidio.
I luterani hanno visto e vedono in Lutero un «Riformatore». Ma in realtà, a parte alcuni aspetti positivi, Lutero non è stato un riformatore, ma un deformatore. Per questo, il successivo Concilio di Trento ha riportato la Chiesa alla sua forma autentica, senza per questo rinunciare ad una sua opera di riforma, che, col passare del tempo e l’evoluzione delle idee e dei i costumi ha mostrato limiti e difetti, ai quali ha cercato di rimediare il recente Concilio Vaticano II, nel momento in cui esso ha fatto avanzare la Chiesa nel cammino verso il regno di Dio. E qui mi riferisco in particolare alla importante questione dell’ascetica e mistica.
Così la salvezza per Lutero è opera della sola grazia e non della natura. Le opere non sono condizione per salvarsi, ma sono il segno che si è già salvi per sola grazia. La salvezza non è mercede delle opere, ma è puramente gratuita. Per salvarsi basta aver fede di salvarsi, indipendentemente dalle opere, che restano peccaminose.
È inutile sforzarsi di togliere i peccati, sono inutili la confessione e la penitenza, sono inutili le austerità, le rinunce, le astinenze e i voti monastici, perché ogni azione umana è comunque peccato. La giustizia non è evitare il peccato, ma coprirsi con la giustizia di Cristo. La nostra giustizia non è nostra, ma è la giustizia di Cristo, una giustizia di altri (iustitia aliena).
Non c’è quindi da preoccuparsi se pecchiamo: l’importante è attaccarsi a Cristo crocifisso, che paga per noi (theologia crucis) ed «afferrare Cristo». La mistica luterana è la gioia e la pace, che vengono dal sapere che Cristo ci ama, ha pietà di noi, ha dato il suo sangue per noi, e dalla certezza assoluta, di fede, che Egli e il suo Spirito sono con noi e che ci salveremo, anzi siamo già salvi e santi fin da adesso.
Lutero trovò il suo modello etico ed antropologico nella Genesi, dove uomo e donna si uniscono in matrimonio per l’accrescimento della specie nella lode di Dio e nel dominio sulla natura. E in ciò non sbagliò. Tuttavia, ben conscio del fatto che il peccato originale aveva introdotto nell’uomo la concupiscenza, come è noto, giudicava sufficiente per la salvezza credere nei meriti di Cristo senza che fosse necessario e possibile, data la corruzione della natura, acquistarne per conto nostro.
La prospettiva contemplativa pareva a Lutero un’utopia di tipo platonico. E ciò meraviglia in un Agostiniano, quando sappiamo quanto è importante in S.Agostino il tema della contemplazione. Eppure, benchè Lutero fosse tanto attaccato alla Bibbia, manca, nella sua spiritualità, il desiderio fondamentale della Scrittura: il desiderio di vedere Dio, che nel Vangelo di Giovanni si concreterà nel desiderio di vedere il Padre (Gv 14,8).
Lutero si concentra nel desiderio dell’unione con Cristo, cosa in sè certamente bella. Ma ciò che interessa a Lutero in Cristo, come del resto nel Padre, è ricevere la loro misericordia, cosa che fa calar molto di tono la nobilissima aspirazione, dandole tutto l’aspetto di una spiritualità ripiegata su se stessa, dove l’io finisce per prevalere su Dio. Non più l’uomo al servizio di Dio, ma Dio al servizio dell’uomo. Dio mi serve per star bene io.
Per questo, il bisogno che Lutero ha di Cristo non pare funzionale al desiderio di vedere il Padre, ma sembra soddisfarsi di un Cristo, che non conduce al Padre, ma chiuso su se stesso e tutto dedicato a Lutero. Ora, questo atteggiamento infantile ed immaturo verso Cristo, questo cristocentrismo senza il Padre, non corrisponde per nulla alla missione che Cristo ha ricevuto dal Padre, che è quella di farci conoscere il Padre (Gv 17,3).
Anche lo Spirito Santo, nella spiritualità luterana, non pare avere alcun rapporto col Padre, non conduce al Padre, ma è solo lo Spirito immanente al credente, che lo illumina direttamente, lo rende loquace e lo certifica della Parola di Dio da annunciare al mondo. Siamo daccapo con un Dio non al vertice dell’ascesi umana, ma funzionale alla salvezza dell’uomo. Pare che se non esistesse l’uomo, Dio non saprebbe che cosa fare.
La spiritualità luterana, come quella cattolica del suo tempo fino al Concilio Vaticano II, è ovviamente, in quanto cristiana, incentrata sull’ascolto della Parola di Dio, sull’unione affettiva con Cristo e sulla docilità allo Spirito. Ma, come abbiamo visto, manca l’anelito verso il Padre, e quindi l’istanza contemplativa, che prepara la visione beatifica del cielo. E questa è una grave lacuna, che vanifica l’unione con Cristo e con lo Spirito Santo, perché queste due Persone, mandate per noi dal Padre, sono venute precisamente per condurci al Padre. Invano cercheremmo nelle parole di Lutero, riferite al Padre, un’eco delle seguenti parole del Salmista, pur fondamentali per capire la spiritualità biblica: «Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così la mia anima anela a Te, o Dio» (Sal 42,2).
Sì, certo, Lutero anela a Dio, ma solo in quanto è il suo Redentore, è Cristo; non lo interessa in se stesso e per se stesso. Il Dio di Lutero è un Dio relativo all’uomo, come poi sarà il Dio di Kant e di Hegel. A Lutero il Padre non interessa. Per lui è il «Deus absconditus», che gli fa paura. Non si capisce bene perchè. Egli sembra immaginarselo come se lo immaginava Marcione: il Dio crudele dell’Antico Testamento. Confonde la giustizia divina con la crudeltà. Cristo invece sarebbe il «Deus revelatus», che lo mette a suo agio, lo conforta, gli dà fiducia e lo consola. Ma chi o che cosa ci rivela Cristo, se non il Padre?
Lutero non riesce a vedere anche nella giustizia divina una manifestazione del suo amore. Pare quasi l’atteggiamento di un fanciullo che voglia svignarsela davanti ai rimbrotti del padre. Deve avere avuto un blocco psicologico sin dall’infanzia per aver sofferto da parte del padre, che si dice fosse molto o troppo severo. Forse questa sarebbe la diagnosi, se Lutero avesse potuto essere psicanalizzato.
Manca la prospettiva escatologica
L’orizzonte cristiano di Lutero, come tutto quello cattolico fino al Concilio Vaticano II, non riesce a superare lo stato presente della natura decaduta per anticipare la resurrezione. Se in Paolo è rilevante latheologia crucis, sono altrettanto vivi i temi e la prospettiva della resurrezione, che inizia già da quaggiù con la stessa vita cristiana.
Lutero, invece, nonostante la sua attenzione a S.Paolo, ignora completamente l’antropologia escatologica, anche perché manca in lui il culto dei Santi, che sono, coi loro miracoli e i doni speciali o specialissimi ricevuti, gli araldi e i prodromi più significativi della resurrezione.
Egli, quindi, finisce per ridursi ad un’onestà borghese secolare e accomodante, ben assestata su questa terra, inserita in una Chiesa adagiata nella politica, serva dello Stato, assolutamente sicuro della propria salvezza, perché glie lo ha rivelato e promesso Cristo, tranquillamente convivente con la propria concupiscenza perdonata a priori, dalla quale Dio distoglie gli occhi, per guardare alla giustizia di Cristo.
La spiritualità luterana apre due strade, che sono state entrambe percorse nei secoli seguenti fino ad oggi: da una parte, con l’abolizione dei gradi gerarchici e degli stati di vita, un appiattimento, una laicizzazione o secolarizzazione della spiritualità, che ha abolito le prospettive ultraterrene celesti e ridotto il comportamento del cristiano ad un semplice agire socio-politico, magari rivoluzionario, che cerca la felicità in questo mondo. E qui abbiamo la teologia della liberazione. Qui, per la mistica come per la contemplazione, non c’è spazio. A meno che non parliamo di una mistica della politica.
Dall’altra parte, Lutero, con la sua mistica dello Spirito Santo immanente nel cristiano, ha aperto la strada all’immanentismo hegeliano dello Spirito Assoluto, del quale l’individuo umano è un momento passeggero ed una contingente manifestazione storico-empirica.
Questa mistica immanentistica rivive in qualche modo oggi nella morale rahneriana, con l’aggravante che, se almeno Hegel mantiene, seppure in clima idealistico, la dignità del concetto, delle idee e della ragione, la mistica rahneriana – avrebbe detto lo stesso Hegel, se l’avesse conosciuta –, con la sua teoria dell’«esperienza preconcettuale, apriorica, atematica e trascendentale del Dio senza nome», finisce nel «torbido», come quella di un Böhme, a giusto giudizio dello stesso Hegel. Oppure lo stesso Lutero avrebbe chiamata la mistica rahneriana Schwärmerei,fantasticheria, per riferirsi alle esternazioni irrazionalistiche ed emotiviste di certi esaltati del suo tempo, dove l’anima è confusa col corpo, il sesso con lo spirito, il senso con l’intelletto e la volontà con gli istinti.
La concezione cattolica
L’ascetica cattolica invece insegna le norme e i metodi più esigenti e i mezzi migliori del perfezionamento morale e del progresso nelle virtù naturali e soprannaturali, con eventuale riferimento a regole di vita consacrata; la mistica[1] rappresenta il punto di arrivo del cammino ascetico, come fruizione dei doni dello Spirito Santo, soprattutto il dono della sapienza infusa, principio della contemplazione o esperienza mistica, pregustazione nella fede della visione beatifica del cielo.
Mentre l’ascetica comporta alcune austerità o rinunce, come l’astinenza sessuale, i digiuni, le veglie, le penitenze, gli spogliamenti, i disagi, il silenzio, la solitudine, la povertà nel vestire e nell’alloggio e simili, la fase mistica tradizionale può essere arricchita da doni straordinari, come le visioni, le apparizioni, i raptus, le estasi, la lettura dei cuori, le penitenze straordinarie, le profezie, le levitazioni, le stigmate, le bilocazioni, e via dicendo. Questi fenomeni, tuttavia, fanno riferimento alla prospettiva della separazione dell’anima dal corpo come condizione per la visione beatifica.
La mistica inaugurata dal Vaticano II, senza escludere i fenomeni precedenti, fa invece riferimento alla resurrezione, per cui i fenomeni mistici ad essa corrispondenti sono prefigurazioni della futura resurrezione individuale e collettiva, come per esempio amicizie uomo-donna nello svolgimento di grandi opere o nella fondazione di istituti a favore della Chiesa o della società, liberazione di nazioni o popoli da mali gravissimi o da dittature disumane o soluzione prodigiosa di conflitti religiosi o sociali umanamente insolubili e senza bisogno dell’uso della forza; esperienze collettive straordinarie liturgiche o di amore fraterno su larga scala.
L’ascetica e la mistica hanno alquanto favorito la santità producendo in questi ultimi secoli una vasta e variegata letteratura scientifica e popolare ad opera di Santi ed autori meno noti in tutti gli Ordini religiosi, nell’episcopato, nel clero e perfino tra i laici, fino all’avvento del Concilio Vaticano II, il quale di per sé non ha affatto abolito questa disciplina teologica, ma ne ha rinnovato l’impostazione, sia col sottolineare la chiamata universale alla santità, compresi i laici, sia col legare maggiormente la ricerca della perfezione personale alla vita ecclesiale, sia col mostrare meglio la meta escatologica del cammino spirituale nella pregustazione della futura resurrezione sin dalla vita presente.
Da Trento al Vaticano II
La mistica promossa dal Concilio di Trento è una mistica dell’anima separata, che contempla Dio per conto proprio, nella solitudine, al di fuori del tempo e del mondo. Sembrerebbe che in cielo siano tutti monaci ed eremiti. Sì, certo, c’è la compagnia degli angeli e dei Santi. Ma la visione beata dell’anima separata sembrerebbe bastare a tutto. È una concezione che risente del platonismo e di Origene.
Invece la mistica promossa dal Vaticano II è una mistica della resurrezione, della gioia anima e corpo, dello spirito e dei sensi, comunitaria ed ecclesiale, nei «nuovi cieli e una nuova terra» (Is 65,17), quindi un nuovo mondo e una nuova storia. Si nota un passaggio dall’antropologia platonica a quella aristotelica, più biblica, valorizzata da S.Tommaso.
La spiritualità del Vaticano II dà alla spiritualità luterana una risposta diversa da quella che aveva dato il Concilio di Trento, che si manteneva, come aveva fatto Lutero, nell’orizzonte della presente natura decaduta, per cui il Concilio di Trento, per rimediare alla sfiducia luterana nella possibilità di vincere la concupiscenza, proponeva un ideale ascetico di lotta severa col soccorso della grazia.
Il Vaticano II, invece, senza dimenticare la vita misera di quaggiù, amplia ed allarga lo sguardo alla riconciliazione edenica della carne con lo spirito, che inizia già da quaggiù con l’avanzare di quell’«uomo nuovo» (cf Col 3,10; Rm 6,6), «uomo risorto» (cf Col 3,1), «uomo celeste» (I Cor15,47) e «nuova creatura» (II Cor 5,17), che sono sorti dal battesimo ed alimentati dalla grazia dei sacramenti, dalle opere buone e dalla comunione ecclesiale.
Gli insegnamenti spirituali del Vaticano II erano fatti, di per sé, per lasciare perfettamente in piedi il trattato di ascetica e mistica. L’ascetica resta valida e necessaria, considerando le condizioni attuali della natura decaduta e quindi la necessità di una vittoria dello spirito sulla carne. Nel contempo la mistica veniva confermata come possibilità di poter già fin d’ora pregustare nella fede la gioia della visione beatifica.
Il Concilio, tuttavia, alla luce della riconciliazione escatologica di carne e spirito, prefigurata dall’avanzamento verso la resurrezione, attenua la severità dell’ascetismo del Concilio di Trento, perché, guardando alla resurrezione, considera con maggior ottimismo la possibilità della conciliazione; da cui l’attenuazione delle misure ascetiche che portano a rinunciare alla carne o a lottare contro la carne.
Potremmo fare il paragone con un malato in cura presso un ospedale. È chiaro che deve stare in ospedale finchè non è guarito. Tuttavia, mano a mano che riprende le forze, anche in ospedale gli può essere concesso di fare qualche passo, come appunto vediamo, nei corridoi degli ospedali, dei degenti in via di guarigione, che muovono i primi passi in attesa di essere dimessi.
Così sono le pratiche ascetiche della vita presente. Esse non sono fini a se stesse, ma sono funzionali all’avanzamento del processo di riconciliazione dello spirito con la carne. Mano a mano che la riconciliazione va avanti, diminuisce la necessità delle pratiche ascetiche.
Per questo l’ascetismo proposto dal Vaticano II è meno severo di quello del Concilio di Trento. Ma è accaduto che la mitigazione delle austerità da alcuni moralisti e maestri di spiritualità è stata condotta oltre una ragionevole misura, fino a ingenerare nei decenni seguenti al Concilio, la diffusione di costumi rilassati per non dire dissoluti. È così che il tradizionale trattato di ascetica e mistica è entrato in crisi. Il termine stesso «ascetica» in certi ambienti ha cominciato a dare fastidio, tanto che in essi è stato abbandonato ed è stato sostituito con una più generica espressione, come «teologia spirituale».
Quanto alla mistica, da certe parti, come per esempio fra i rahneriani, si è cominciato a intenderla non come punto di arrivo, ma come punto di partenza o clima normale del vivere cristiano, come «esperienza atematica trascendentale del Mistero». La presenza in questa vita della dimensione escatologica dell’esistenza umana è stata talmente enfatizzata, da farla coincidere con quella presente, terrena, sicchè al futuro dopo la morte pare non esserci più spazio.
Oggi appare come non mai la fondazione trinitaria dell’ascetica e della mistica. L’ascetica riguarda il Figlio e lo Spirito Santo, perché sono queste le divine Persone che ci guidano al Padre, meta del cammino terreno. Ora, l’ascetica tratta appunto delle tappe del progresso spirituale verso il Padre che è nei cieli. La mistica comporta invece la pregustazione terrena della patria celeste, e quindi è l’incontro mistico col Padre e la contemplazione iniziale, fin da ora, del suo volto.
Questione importante è quella della collocazione dell’ascetica e mistica nell’ambito delle discipline teologiche[2]. Essa si propone come scopo quello di far raggiungere alle anime la perfezione della carità e perciò viene chiamata anche «teologia della perfezione». Ma la perfezione consiste nella santità, e perciò può essere chiamata anche «teologia della santità».
Il termine «teologia spirituale» è pure opportuno, in quanto è quella parte completiva della teologia morale o coronamento della teologia morale, che insegna a porsi a disposizione delle mozioni e ispirazioni dello Spirito Santo o sotto la guida dello Spirito Santo, come discernere la sua venuta – è la discretio spirituum (I Cor 12,10) – e come condursi quando soffia. Si può distinguere la teologia spirituale dalla teologia morale, in quanto questa tratta delle virtù teologali, mentre la teologia spirituale tratta dei sette doni dello Spirito Santo.
11 maggio 2019
[1] Cf il mio libro Il silenzio della parola. Le mistiche confronto, Edizioni ESD,Bologna 2002.
[2] Cf il mio saggio Proposta di sistemazione della teologia spirituale, in Teoria e pratica della mistica, Atti del I Forum Internazionale organizzato dal Santuario del Corpus Domini, La Santa, Bologna 2000, pp,23-33.