Il valore della vita umana sta diventando sempre di più un concetto relativo e dunque soggetto a continue ridefinizioni, lo dimostra la recente legge sul consenso informato e le Disposizioni Anticipate di Trattamento (Dat) che prevede, ricordiamolo, persino la rinuncia o il rifiuto da parte del paziente all’idratazione e la nutrizione artificiale, equiparati ai “trattamenti sanitari”, e l’obbligo da parte del medico di rispettarne la volontà.
Di questo si è parlato, e in termini non proprio rassicuranti, il 9 maggio scorso, nel corso del convegno Dignità della persona e fine vita presso il Consiglio Superiore della Magistratura, a Roma, occasione in cui si è riflettuto sul modo in cui «la potenza tecnologica e il progresso scientifico stanno ridefinendo i confini della natura e della vita, ponendo profonde questioni etico-giuridiche», affermazione che è ritornata più volte nel corso della convention. All’evento hanno partecipato come relatori, tra gli altri, Alberto Gambino, direttore scientifico di Diritto Mercato Tecnologia, Marta Cartabia, vicepresidente della Corte costituzionale, Paolo Criscuoli e Michele Ciambellini, componenti della Sesta commissione del Consiglio Superiore della Magistratura, Antonio Spagnolo, professore ordinario all’Università Cattolica del Sacro Cuore, Gabriele Carapezza Figlia, professore ordinario alla Libera Università Maria Ss. Assunta Antonio Vallini, professore ordinario all’Università degli Studi di Pisa.
L’inesorabilità della deriva eutanasica delle legge sulle Dat, a costo di un intervento ad hoc da parte della magistratura, finalizzato «a colmare zone mancanti» del disegno di legge, come ha affermato, durante l’incontro, anche la vicepresidente della Corte costituzionale, Marta Cartabia, è stata ben chiara sin dal discorso di apertura tenuto da David Ermini, vicepresidente del Csm, il quale ha detto che quello del fine vita è «un tema di estrema delicatezza e complessità, ma è un tema ormai pressante e ineludibile dopo che l’ordinanza n. 207/2018 della Corte Costituzionale sull’aiuto al suicidio l’ha di fatto iscritto nell’agenda politica dei prossimi mesi». Dignità della persona e fine vita sono, ha sottolineato Ermini, «questioni centrali che interrogano severamente il diritto e richiedono l’assunzione da parte dei giuristi di un ruolo di guida intellettuale, di riflessione critica e pungolo delle coscienze».
E sull’ordinanza della Corte Costituzionale, Ermini ha affermato, con parole sibilline, che «la Corte è netta nell’escludere l’esistenza di un diritto a morire, ma è altrettanto netta nell’escludere un dovere di vivere oltre ogni sofferenza». Insomma, se il governo non interviene, la palla passa ai magistrati, piaccia o meno. Infatti immaginando ritardi da parte del parlamento nel colmare i vuoti legislativi, poiché è «realisticamente alquanto difficile che una nuova legge possa essere approvata prima di settembre», come ha affermato più volte Ermini, egli sostiene probabile che «possa ricadere proprio sulle spalle dei giudici la responsabilità di risolvere problemi etico-giuridici lasciati in sospeso dal legislatore».
Insomma, dispiace dirlo, ma anche in questo caso si può parlare a ragione di “dittatura della magistratura”, ovvero di un atteggiamento di incredibile ingerenza che ha portato, anzi porta tuttora a colpi di sentenze ad hoc (che riconoscono ad esempio la doppia paternità, nel caso di coppie gay) alla legittimazione, di fatto, dell’utero in affitto e di altre pratiche “fuori legge”. Ma nello Stato di diritto i giudici hanno il compito di applicare la legge, non di crearla approfittando dei cosiddetti “vuoti normativi”, frutto, peraltro, di leggi controverse perché dalla matrice fortemente ideologica. Ma di fatto, si sta verificando un fenomeno preoccupante ovvero, in diversi casi, la magistratura opera in modo da superare se non proprio disfare le leggi del parlamento, non ponendosi nemmeno il problema della sovranità popolare e della democrazia, argomenti che paradossalmente usano, poi, per giustificare il proprio discutibile operato. E il Parlamento che fa? Misteriosamente (o forse no) si adegua.
Manuela Antonacci
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