E’ bene chiarire questo aspetto che genera molta disinformazione. Leggete con attenzione.
I preti hanno uno “stipendio”? E’ giusto definirlo così? E poi come si calcola? A queste domande risponde in “I soldi della Chiesa. Ricchezze favolose e povertà evangelica” (Edizioni Paoline), Mimmo Muolo, vaticanista di Avvenire.
Con la legge 222 del 1985 è stato avviato il nuovo sistema di sostentamento del clero. Tutti i presbiteri in servizio alle diocesi italiane ricevono la loro remunerazione sulla base delle stesse regole. Spesso, nel linguaggio di tutti i giorni, si usa l’espressione «stipendio del prete», in realtà l’appellativo corretto è remunerazione. E vi spieghiamo perchè.
Chiamata di Dio
E’ stato il cardinale Attilio Nicora, padre di questa riforma, a sottolinere come fosse più corretto parlare di remunerazione. Il sacerdote, infatti, non è un funzionario o un impiegato del sacro (ce lo ricorda spessissimo anche papa Francesco), non svolge cioè una professione. La sua è una vocazione, una chiamata di Dio, che ha come conseguenza la missione di annunciare il Vangelo.
Dunque sarebbe del tutto improprio parlare di stipendio. Il termine «remunerazione» allude invece allo scambio di doni che si stabilisce tra il sacerdote e la sua comunità: il primo media il dono della parola di Dio e spezza il suo Corpo per i fedeli; questi ultimi rendono grazie per il dono spirituale ricevuto provvedendo al suo sostentamento. E così torniamo a san Paolo: chi annuncia il Vangelo viva del Vangelo.
I tre principi
I principi sui quali si fonda il sostentamento del clero diocesano in Italia sono tre:
1) Tutti i sacerdoti che si dedicano al servizio della Chiesa hanno diritto a un’equa remunerazione;
2) spetta in primo luogo ai fedeli assicurare la remunerazione ai propri sacerdoti;
3) la remunerazione deve essere uguale per tutti coloro che si trovano nelle stesse condizioni.
80 punti
In base a questi principi, a ogni prete viene assegnato un determinato numero di punti, a seconda degli incarichi svolti, dell’anzianità, delle condizioni più o meno favorevoli in cui i sacerdoti si trovano a operare e di altri parametri.
Ma tutti i presbiteri partono da una stessa base minima che è di 80 punti. A ogni punto corrisponde un valore periodicamente stabilito dal Consiglio permanente della Cei. Un valore che tra l’altro, dal 2009 a oggi, non è cambiato: 12,36 euro (si era partiti nel 1997 da 12.600 lire, pari a 6,51 euro).
La remunerazione netta mensile
La remunerazione mensile di ciascun sacerdote sarà dunque pari al numero dei punti cui egli ha diritto, moltiplicato per il valore del punto. Ad esempio: 80 punti per 12,36 euro lordi fanno 988,80 euro lordi mensili. Su questa cifra si applicano poi le trattenute per il pagamento dell’Irpef e per la previdenza, poiché solo da questo punto di vista i sacerdoti sono assimilati ai lavoratori dipendenti. Perciò, sulla base delle aliquote fiscali vigenti, 988,80 euro lordi diventano 860,66 euro netti.
Non c’è la tredicesima
Inoltre, non esiste grande differenza tra un sacerdote appena ordinato, la cui remunerazione è appunto quella ricordata nell’esempio precedente, e un vescovo di settantacinque anni, ai limiti della pensione. Quest’ultimo raggiunge 1705,68 euro lordi, che diventano 1338,03 euro netti, mentre un terzo esempio tra questi due estremi è quello di un parroco con trent’anni di sacerdozio in una parrocchia di cinquemila abitanti: attualmente ha diritto a 1070,55 euro netti al mese.
È bene ricordare poi che il clero diocesano italiano ha solo dodici mensilità. Quindi, niente tredicesima.
Il calcolo dei punti
Può essere utile a questo punto anche riepilogare i criteri in base ai quali vengono assegnati i punti che si aggiungono agli 80 di base, validi per tutti.
1) Primo criterio, l’anzianità: due punti per ogni cinque anni di ministero esercitato, fino a un massimo di otto scatti quinquennali; in occasione degli ultimi due scatti vengono assegnati tre punti.
2) Secondo criterio, gli incarichi: un vescovo ha diritto a 40 punti oltre gli 80 di base uguali per tutti. Se ha due o più diocesi, i punti aggiuntivi diventano complessivamente 70 (i precedenti 40 più altri 30). A un vicario generale spettano 25 punti, a un parroco con una parrocchia di più di quattromila abitanti 10 punti. I parroci che insegnano nella scuola pubblica ricevono da un minimo di 10 punti a un massimo di 23 a seconda delle ore di scuola. Vengono assegnati 10 punti pure ai cappellani delle carceri e a chi insegna nelle Facoltà teologiche italiane, negli istituti equiparati e negli Istituti di Scienze religiose.
3) I vescovi diocesani hanno poi la possibilità di attribuire ai loro sacerdoti alcuni punti aggiuntivi (fino a un massimo di 25 per tutto il clero diocesano), proprio per favorire la perequazione, qualora le condizioni particolarmente svantaggiate del ministero pastorale di alcuni lo richiedano.
Chi paga
Chi paga la remunerazione dei presbiteri? Prima di tutto va escluso che sia il Vaticano.
La prima realtà che deve provvedere allo «stipendio» è l’ente ecclesiastico presso cui il sacerdote esercita il proprio ministero pastorale: la parrocchia per il parroco e gli eventuali viceparroci, la diocesi per il vescovo.
In seconda battuta ci sono i redditi di lavoro o di pensione che il sistema considera computabili. Per comprendere meglio, prendiamo il caso di un sacerdote che insegni religione nelle scuole pubbliche.
Il terzo livello è l’Istituto per il Sostentamento del Clero (Icsc), con sede a Roma, che assicura la perequazione contabile, cioè effettiva, colmando la differenza tra la somma che in base ai punti spetta a ciascun sacerdote e la somma già fornita dalle altre fonti (parrocchia, stipendio di insegnante ecc.) L’Icsc svolge tale compito di integrazione grazie ai fondi che gli derivano ogni anno dalle offerte deducibili e dalla quota di 8xmille che i vescovi destinano al sostentamento del clero.
Aleteia, Mag 21, 2019