San Basilio, il grande padre della Chiesa del IV secolo, poco prima di morire scrisse il De judicio Dei, un testo breve ma munito di grande autorevolezza, un testo pieno di parrhesía, con il quale denunciava la situazione patologica che le Chiese stavano attraversando.
Basilio osservava “il disaccordo tra i vescovi delle Chiese”, partecipava al turbamento sofferto dal gregge di Dio, constatava la stanchezza e la tiepidezza di molti cristiani. E, soprattutto, si interrogava sul motivo di tante divisioni, discordie e accuse tra le Chiese di Dio.
Confesso che questo testo è sempre stato da me meditato, ma in questi ultimi anni quasi mi attrae. E mi costringe a una sua rilettura, per trovare nella grande tradizione sentimenti simili a quelli che provo di fronte alla Chiesa di oggi. Sì, occorre dirlo e denunciarlo senza paure: viviamo una situazione ecclesiale caratterizzata da “giorni cattivi”. Oggi non si vive bene nella Chiesa e — anche se l’aria non è più quella denunciata, qualche anno fa, da un teologo e da uno storico nel libro Manca il respiro —, si respira però un’aria avvelenata. Molti, tra quelli che sono più coscienti della vita ecclesiale, si dichiarano stanchi, addirittura depressi. Oltre che delusi per aver nutrito speranze che appaiono ora soltanto illusioni. Ma cerchiamo di delineare con più precisione e chiarezza alcune di queste patologie.
Secondo il mio povero ma attento discernimento, ciò che ammorba la vita ecclesiale è, in primo luogo, la mondanità che l’ha invasa. Sempre più sento dire: «Siamo come gli altri fuori, nel mondo». È venuta meno la “differenza cristiana”, quella possibilità di non fare “come fan tutti”.
Sembra che il Vangelo, posto al centro della vita cristiana dal Concilio e dal rinnovamento che ne è seguito, non abbia più il primato nell’ispirare pensieri, sentimenti e azioni. Per quelli che io chiamo i “cristiani del campanile”, il cattolicesimo professato con maggiore o minore convinzione può anche essere in contraddizione con il Vangelo, ma resta coerente con l’identità culturale, la tradizione e l’ideologia dominante del mondo occidentale ricco e sazio.
Questa mondanità impedisce l’ascolto delle parole di Gesù, preferendo a esse i valori giudicati tradizionali. Proprio per questo, non si ascoltano o addirittura si contestano in modo sguaiato gli interventi dei vescovi e dei presbiteri che ricordano alla comunità cristiana la presenza del povero, del migrante, degli scarti della società. E si faccia attenzione: non è la “religione cattolica” a essere contestata ma il Vangelo. Al punto che si è sentita risuonare l’affermazione: «Siamo cattolici romani innanzitutto!». Nazioni celebrate per il loro cattolicesimo e per la loro fedeltà alla Chiesa, come la Polonia e l’Ungheria, o regioni italiane fino a ieri malate di clericalismo, ora affermano una civiltà cattolica che contraddice il vangelo di Gesù Cristo. Così la comunità cristiana è divisa non tra credenti ortodossi e credenti eretici, ma tra porzioni che si oppongono, si detestano e si delegittimano.
Questi anni, inoltre, sono vissuti con sofferenza anche a causa degli scandali che ogni giorno emergono e sono denunciati ossessivamente dai media. La Chiesa ne esce umiliata e sta imparando ad assumere la responsabilità di delitti troppo a lungo non valutati nella loro gravità, trascurati e talvolta occultati. Ma se da un lato questo cammino doloroso significa purificazione e riparazione del male inflitto, resta anche vero che ormai si è soffiato su un sentimento che potremmo chiamare “pretofobia”. Vi è paura dei preti, diffidenza nei loro confronti e verso la loro funzione educativa, sospetto per quegli atteggiamenti che non vengono più letti come manifestazioni di affetto ma solo come soprusi. Oggi i preti non ne possono più! Sono continuamente fustigati. E, in ogni caso, non difesi come la giustizia richiederebbe.
I delitti che emergono, soprattutto quelli di pedofilia, sono gravissimi, ma sono pochi quanti se ne macchiano e non è giusto che la maggioranza dei preti, che oggi vivono una vita sovente povera e faticosa, sia travolta da atteggiamenti di diffidenza. Anche chi commette delitti deve conoscere la misericordia di Dio. E non deve più risuonare nello spazio ecclesiale l’espressione “tolleranza zero”.
Sempre la Chiesa ha annoverato trai suoi figli peccatori. Anzi, tutti i suoi figli e figlie restano peccatori: cambiano solo i loro peccati, ma tutti restano bisognosi dell’infinita misericordia di Dio.
Chi è senza peccato? Anche preti e vescovi hanno bisogno di misericordia è il titolo di un libro scritto da un mio amico vescovo, Gérard Daucourt: ce n’è veramente bisogno!
Infine, non si può ignorare una patologia che minaccia fortemente la Chiesa cattolica: quella riguardante papa Francesco, nei cui confronti s’è ormai scatenata un’opposizione sconosciuta almeno nei confronti dei Papi del secolo scorso. Francesco è delegittimato come Papa da una piccola porzione di tradizionalisti, ma il suo magistero è spesso contestato e giudicato eretico da gruppi di cattolici ben organizzati e con grande esposizione mediatica. Costoro si spingono fino ai limiti di fomentare uno scisma. E trovano le loro ragioni in quella dinamica del magistero papale che essi denunciano come rottura con la tradizione, demolizione dell’istituzione cattolica, mutamento della forma ecclesiale ricevuta dalla tradizione.
Questa opposizione a Francesco, focalizzata sull’Amoris laetitia e la disciplina sull’indissolubilità del matrimonio e la vita ecclesiale dei coniugi divorziati, si scatena ogni volta che il Papa mostra o chiede atteggiamenti di misericordia. Tutti sappiamo che, in realtà, Francesco è fedele alla tradizione, può essere annoverato tra i conservatori in materia dottrinale. Ma, effettivamente, con le sue parole e i suoi gesti mostra che l’intero suo ministero è volto non a ridare prestigio e grandiosità alla Chiesa ma a conferire l’egemonia e il primato al Vangelo nella vita della Chiesa. D’altronde, fin dall’inizio del suo pontificato l’avevo scritto: «Più nella Chiesa appariranno il primato del Vangelo e la volontà di conformità a Cristo da parte della sua sposa, più le potenze demoniache, messe al muro, si scateneranno, così che nella Chiesa la vita non sarà più pacifica, mondanamente bella, ma maggiormente segnata dall’apparire del segno del Figlio dell’uomo, la croce».
Oggi dobbiamo essere consapevoli che la Chiesa ha iniziato un esodo del quale per ora non si intravede la terra di arrivo. Camminiamo in un faticoso e accidentato deserto, nella calma del giorno e nell’oscurità della notte. A volte ci pare di essere una carovana che procede incerta, mentre molti di quanti la compongono la lasciano o addirittura la fuggono, come accadde per la comunità di Gesù nei giorni della sua uccisione ignominiosa. Che cosa ci resta da fare come assoluto necessario? Nel cuore di chi aderisce al Vangelo e tenta di restare discepolo di Gesù, c’è una sola risposta: celebrare e vivere l’eucaristia. Al cuore della nostra crisi ecclesiale, l’atto che rifonda costantemente la Chiesa come comunità del Signore Gesù e che le dà vita, è l’eucaristia. Gesù Cristo è con noi, noi entriamo in comunione con lui e viviamo della sua stessa vita, noi cadiamo e ci alziamo, cadiamo ancora e ci alziamo ancora. È il mistero della risurrezione!
Vita Pastorale
6/ giugno 2019