Uno dei più devastanti pericoli che la cultura oggi corre è stato efficacemente descritto dallo scrittore inglese C.S. Lewis con l’espressione “chronological snobbery”, per significare l’accettazione acritica di quanto succede solo perché esso appartiene al trend intellettuale del presente. È questo il caso della aporofobia (letteralmente: disprezzo del povero), un atteggiamento, questo, in rapida diffusione nelle società dell’Occidente avanzato, che vede la condizione di povertà come qualcosa di connaturato alla natura umana oppure come una sorta di male necessario per consentire alla società di avanzare. Dallo spirito di compassione di un tempo si sta passando al disprezzo o, quando va bene, all’indifferenza.
L’accettazione supina del factum toglie così respiro al faciendum. Eppure, già Condorcet nel suo Esquisse del 1794, aveva avvertito: «È facile dimostrare che le fortune tendono naturalmente all’eguaglianza e che la loro eccessiva sproporzione o non può esistere o deve rapidamente cessare se le leggi civili non impongono mezzi artificiosi per perpetuarle o per riunirle». Quanto a dire che le grandi diseguaglianze sociali sono un prodotto dell’organizzazione della società e non già un dato di natura da accettare come qualcosa di immodificabile.
Ideologia del merito
Cosa c’è al fondo di un simile cambio di mentalità? Di due fattori causali, soprattutto, intendo qui dire.
Il primo è quello attribuibile all’affermazione nel corso dell’ultimo quarto di secolo, dell’ideologia meritocratica. Introdotto per primo dal sociologo inglese Michael Young nel 1958, il concetto di meritocrazia è andato via via crescendo di rilevanza nel dibattito pubblico. Meritocrazia è, letteralmente, il potere del merito, cioè il principio di organizzazione sociale che fonda ogni forma di promozione e di assegnazione di potere esclusivamente sul merito.
Il merito è la risultante di due componenti: il talento che ciascuno ottiene dalla lotteria naturale e l’impegno profuso dal soggetto nello svolgimento di attività o mansioni varie. Nelle versioni più raffinate, la nozione di talento tiene conto delle condizioni di contesto, dal momento che il quoziente di intelligenza dipende anche dall’educazione ricevuta e da fattori socio-ambientali.
Del pari, la nozione di sforzo viene qualificata in relazione alla matrice culturale della società in cui cresce e opera l’individuo, e ciò perché l’impegno dipende, oltre che dai “sentimenti morali”, anche dal riconoscimento sociale, cioè da quello che la società reputa di dover giudicare meritorio. Invero, è un fatto a tutti noto che la medesima abilità personale e il medesimo sforzo vengono valutati diversamente a seconda dell’ethos pubblico prevalente in un dato contesto.
Ecco perché quello meritocratico, secondo il giudizio del suo inventore, non può essere preso come criterio per la distribuzione delle risorse di potere, sia economico sia politico.
Young fu talmente persuaso della pericolosità di tale principio che arrivò a scrivere nel 2001 un articolo in cui lamentò il fatto che il suo saggio del 1958 fosse stato interpretato come un elogio e non come una critica radicale della meritocrazia intesa come sistema di governo e come organizzazione dell’azione collettiva. In buona sostanza, il pericolo serio insito nell’accettazione acritica della meritocrazia è lo scivolamento – come Aristotele aveva chiaramente intravisto – verso forme più o meno velate di tecnocrazia oligarchica. Una politica meritocratica contiene in sé i germi che portano, alla lunga, all’eutanasia del principio democratico.
Il criterio del merito
Ben diverso è il giudizio nei confronti della meritorietà che è il principio di organizzazione sociale basato sul “criterio del merito” e non già del “potere del merito”. È certo giusto che chi merita di più ottenga di più, ma non tanto da porlo in grado di disegnare regole del gioco – economico e/o politico – capaci poi di avvantaggiarlo. Si tratta cioè di evitare che le differenze di ricchezza associate al merito si traducano in differenze di potere decisionale. Se non è accettabile che tutti gli uomini vengano trattati egualmente – come vorrebbe l’egualitarismo –, è però necessario che tutti vengano trattati come eguali, il che è quanto la meritocrazia non garantisce affatto.
In altro modo, mentre la meritocrazia invoca il principio del merito nella fase della distribuzione della ricchezza, cioè post-factum, la meritorietà si perita di applicarlo nella fase della produzione della ricchezza, mirando ad assicurare l’eguaglianza delle capacitazioni (capabilities).
In buona sostanza, il problema serio con la nozione di meritocrazia non sta nel merere (guadagnare) ma nel kratos (potere). La meritorietà, invece, fa propria la distinzione tra merito come criterio di selezione tra persone e gruppi e merito come criterio di verifica di una abilità o risultato conseguito. Il primo è respinto; il secondo è accolto.
La meritorietà è, dunque, la meritocrazia depurata della sua deriva antidemocratica. Già Aristotele aveva scritto che la meritocrazia non è compatibile con la democrazia. Per l’ideologia meritocratica, se un individuo cade nella povertà è “colpa” sua: di qui il disprezzo.
I dogmi dell’ingiustizia
La seconda della cause di cui sopra si diceva è la continua credenza, nella nostra società, nei dogmi dell’ingiustizia. Di due, in particolare, mette conto dire.
Il primo afferma che la società nel suo insieme verrebbe avvantaggiata se ciascun individuo agisse per perseguire solamente il proprio beneficio personale. Il che è doppiamente falso. In primo luogo, perché l’argomento smithiano della mano invisibile postula, per la sua validità, che i mercati siano vicini all’ideale della libera concorrenza, in cui non vi sono né monopoli né oligopoli, né asimmetrie informative. Ma tutti sanno che le condizioni per avere mercati di concorrenza perfetta non possono essere soddisfatte nella realtà, con il che la mano invisibile non può operare.
Non solo, ma le persone hanno talenti e abilità diverse. Ne consegue che, se le regole del gioco vengono forgiate in modo da esaltare, poniamo, i comportamenti opportunistici, disonesti, immorali ecc., accadrà che quei soggetti la cui costituzione morale è caratterizzata da tali tendenze finiranno con lo schiacciare gli altri.
Del pari, l’avidità intesa come passione dell’avere è uno dei sette vizi capitali. Se nei luoghi di lavoro si introducono forti sistemi di incentivi è evidente che i più avidi tenderanno a sottomettere i meno avidi. In questo senso, si può affermare che non esistono poveri in natura, ma per condizioni sociali; per il modo cioè in cui vengono disegnate le regole del gioco economico.
L’altro dogma dell’ingiustizia è la credenza che l’elitarismo vada incoraggiato perché efficiente e ciò nel senso che il benessere dei più cresce maggiormente con la promozione delle abilità dei pochi. E dunque risorse, attenzioni, incentivi, premi devono andare ai più dotati, perché è all’impegno di costoro che si deve il progresso della società. Ne deriva che l’esclusione dall’attività economica – nella forma, ad esempio, di precariato e/o disoccupazione – dei meno dotati è qualcosa non solamente normale, ma anche necessario se si vuole accrescere il tasso al quale aumenta il PIL (prodotto interno lordo).
La crisi dell’idea di uguaglianza dovuta alla circostanza che l’applicazione del canone della giustizia distributiva richiede sempre un sacrificio, è bene descritta da Norberto Bobbio (1999) quando scrive che alla lotta per l’uguaglianza fa quasi sempre seguito la lotta per la differenza.
Terzo settore: rendere cittadini
Tante, e di varia natura, sono le conseguenze che discendono dall’argomento sopra esposto. Su una di queste, in particolare, desidero richiamare l’attenzione: il marcato e ormai a tutti noto fin de non recevoir nei confronti degli Enti di Terzo Settore (volontariato, imprese sociali, cooperative sociali, ONG, fondazioni civili). Si tratta di una galassia di soggetti – di cui il nostro paese è provvidenzialmente ricco – la cui missione primaria è quella di pensare, in primis, agli ultimi rispettandone la dignità e favorendone la fioritura umana.
È agevole comprendere perché ciò accade. Chi insegna e pratica l’aporofobia non può certo vedere di buon occhio l’espansione di soggetti il cui agire vale soprattutto a veicolare nella società la virtù della misericordia. Li si tollera bensì e pure si elargiscono loro benefici fiscali, ma non si accetta che possano raggiungere la soglia critica, oltre la quale riescono a diventare soggetti autonomi. Vanno dunque tenuti sotto tutela.
Nella prospettiva cristiana la misericordia dice del modo in cui l’amore si deve manifestare – come ha scritto papa Francesco, «Dio ama misericordiando»; esercita, cioè, la giustizia rendendo giusti coloro che sono perdonati.
Il confronto di due brani di autori celebri consente di afferrare il senso dell’affermazione riferita.
Ne Il Mercante di Venezia di W. Shakespeare si legge: «La misericordia è al di sopra del potere degli scettri dei re. Essa ha il suo trono nel cuore dei sovrani ed è l’attributo di Dio stesso. Il potere terreno diventa allora più simile a quello divino solo quando la misericordia tempera la giustizia». (Atto IV, scena I).
Su un altro versante, F. Nietzsche scrive nel suo Così parlò Zarathustra (1883-85): «In verità io non amo i misericordiosi… Tutti i creatori sono duri. Dio è morto e la sua compassione per gli uomini fu la sua morte… Sia lodato ciò che ci rende duri».
I brani si commentano da soli. Mi limito solo ad osservare che la misericordia cui fa riferimento il filosofo tedesco – cui dava fastidio una certa retorica moralistica –, è un atto etico-filosofico, non teologico in senso cristiano. Un antico apologo recita: «Il discepolo aveva peccato gravemente e pubblicamente. Il maestro non lo punì. Un altro discepolo protestò “Non si può ignorare la colpa, Dio ci ha dato gli occhi”. Il maestro replicò “Sì, ma anche le palpebre!”». La misericordia ha palpebre.
Misericordia, forma del sociale
Lo storiografo romano Gaio Igino, nel Fabulorum Liber, ci ha trasmesso un racconto mitologico che bene fa comprendere il ruolo, per così dire, economico-sociale della misericordia. Nel racconto, Cura dà forma all’essere umano plasmandolo con del fango.
Giove, invitato da Cura a infondere lo spirito al suo pezzo di creta, volle imporre il suo nome, ma Terra intervenne reclamando che venisse data a questa creatura il proprio nome, perché aveva dato ad essa parte del proprio corpo.
Saturno, eletto a giudice, decise che questa creatura si sarebbe chiamata homo (da humus, fango), che Giove avrebbe avuto lo spirito al momento della morte, mentre Terra ne avrebbe ricevuto il corpo; ma Cura lo avrebbe posseduto per tutta la vita, poiché per prima gli ha dato forma.
Cura dà forma al fango conferendogli così dignità umana. È in ciò la missione propria degli enti di terzo settore in ambito economico: quella di dare “forma” al mercato, umanizzandolo.
Invero, sono le molteplici azioni di misericordia che, nonostante le difficoltà, continuano ad essere poste in pratica che ci fanno capire che una società non può progredire sulla via dello sviluppo umano integrale tenendo tra loro disgiunti il codice dell’efficienza e il codice della fraternità.
È questa separazione a darci conto del paradosso che affligge le nostre società; per un verso si moltiplicano le prese di posizione a favore di coloro che, per ragioni diverse, restano indietro o addirittura esclusi dalla gara di mercato. Per l’altro verso, tutto il discorso economico è centrato sulla sola efficienza. C’è allora da meravigliarsi se oggi le disuguaglianze sociali vanno aumentando pur in presenza di un aumento globale della ricchezza?
Fraternità e mercato
Aver dimenticato il fatto che non è sostenibile una società di umani in cui si estingue il senso di fraternità e in cui tutto si riduce, per un verso, a migliorare le transazioni basate sullo scambio di equivalenti e, per l’altro verso, ad aumentare i trasferimenti attuali da strutture assistenziali di natura pubblica, ci dà conto del perché, nonostante la qualità delle forze intellettuali in campo, non si sia ancora addivenuti ad una soluzione credibile del grande trade-off tra efficienza ed equità.
Non è capace di futuro la società in cui si dissolve il principio di fraternità; non è cioè capace di progredire quella società in cui esiste solamente il “dare per avere” oppure il “dare per dovere”. Ecco perché, né la visione liberal-individualista del mondo, in cui tutto (o quasi) è scambio, né la visione stato-centrica della società, in cui tutto (o quasi) è doverosità, sono guide sicure per farci uscire dalle secche in cui le nostre società sono oggi impantanate.
L’esigenza di affratellamento emerge da tutte le sfere della convivenza – economica, politica, sociale –. La grande sfida da raccogliere è come raccordare l’esigenza libertaria, propria della soggettivizzazione dei diritti, e l’istanza comunitaria. Vale a dire, come non perdere il senso soggettivo della libertà e, insieme, non tradire lo spazio dell’altro, non solo non invadendolo, ma contribuendo al suo arricchimento.
Un passo famoso di William Blake – poeta e artista nutrito delle sacre Scritture – ci aiuta ad afferrare la potenza del principio di fraternità: «Ho cercato la mia anima e non l’ho trovata. Ho cercato Dio e non l’ho trovato. Ho cercato mio fratello e li ho trovati tutti e tre». L’intuizione del poeta inglese è ricavata dalla pagina evangelica in cui Gesù ci informa che il suo viso si cela dietro i profili miseri degli ultimi dei nostri fratelli (Mt 25,31-46). È nella pratica della misericordia che la persona incontra simultaneamente, il proprio io, l’altro e Dio.
Stefano Zamagni
5 giugno 2019
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