Se si dà acqua alle radici, il tronco e la chioma ringraziano. Il “ritorno” di un latino piegato tra l’altro alle nuove necessità linguistiche è uno sguardo verso il futuro, per capire meglio, per migliorare se stessi e il mondo. Oltre che aprire la mente e lo spirito.
Potrebbe sembrare un nostalgico ritorno, ma non lo è. A tornare esattamente dove si era potrebbero attenderci delle delusioni, come sapeva Proust. In Vaticano sono ben coscienti di questo, e quando hanno deciso di ripristinare un notiziario settimanale in latino sulle attività di Papa Francesco, hanno semplicemente messo in atto ciò che da secoli molti sostengono, e con ragione, gli esperti.
Il latino è una lingua unificante e quindi comunitaria.
Ancora oggi in molti convegni internazionali oratori, danesi come cileni, preferiscono parlare in latino ad un pubblico italiano come inglese o russo senza che nessuno sollevi il cipiglio, anzi. E non c’è molta circolazione di cuffie per la traduzione. Quando Dante segnò il passaggio “ufficiale” verso il volgare, lo fece sapendo che la base della lingua del popolo (questo significa volgare) era l’antica parlata di un Europa unita non solo dalle leggi romane, ma anche dalla lingua dei legionari. E il padre nobile della nostra cultura riteneva che questo latino portasse con sè la “traduzione” romana di un messaggio iniziato più di mille e duecento anni prima in Palestina. Se il Fiorentino ha tenuto conto della necessità di far leggere anche le fasce popolari, ha scritto però opere fondamentali, come il De vulgari eloquentia o il De monarchia, in latino, che rimaneva la lingua, allora già internazionale, dei dotti. Il sospetto di alcuni è che la lotta contro il latino abbia radici ideologiche -e ignoranti, nel senso (guarda caso) etimologico del termine- e che venga dalla convinzione che sia lingua dei preti e della Chiesa. Ma non solo questo. Se qualcuno pensasse che la lingua dei romani sia un fossile da riesumare solo nei musei linguistici (licei, e mica tutti, Lettere, magari solo quelle classiche) sbaglierebbe di grosso. Intanto serve tantissimo nelle facoltà linguistiche:
le lingue cosiddette romanze, sviluppatesi con la trasformazione del latino a contatto con le lingue delle varie popolazioni, e quelle “indoeuropee” che provengono, come il latino da un ceppo linguistico comune, hanno ancora molto in comune: il loro studio all’università è facilitato dalla conoscenza del latino.
Ma l’utilità della lingua non riguarda solo le materie umanistico-linguistiche. Quanti medici affermati ringraziano i genitori di averli iscritti ad un liceo, soprattutto classico? Tantissimi, e il motivo è che, conoscendo il latino e il greco, impieghi molto meno tempo a studiare, perché quasi tutti i nomi di organi e malattie provengono dal latino (suffissi, parole come “decubito”, “placebo”, “videat”, “trigemino” e migliaia di altri termini) e dal greco. E questo vale per la psicologia e la psicoanalisi, con parole che fanno parte ormai della parlata quotidiana come “libido”, “ego”, “super-ego”.
Per non parlare dell’archeologia (si pensi ai siti romani sparsi in tutto il mondo di allora), della storia dell’arte, dove è necessario analizzare frasi inserite nel quadro stesso, iscrizioni e finanche libri di pagamento per far luce sull’attribuzione di alcune opere.
Se si dà acqua alle radici, il tronco e la chioma ringraziano. Il “ritorno” di un latino piegato tra l’altro alle nuove necessità linguistiche è uno sguardo verso il futuro, per capire meglio, per migliorare se stessi e il mondo. Oltre che aprire la mente e lo spirito.
Marco Testi
8 giugno 2019