Per un Silvio Viale, che continua a illudersi di far fuori semplici grumi di cellule, vi sono decine di altri abortisti che non si nascondono dietro un dito. In America, più di un medico lo ha ammesso: quello che faccio è uccidere un essere umano nell’utero di sua madre. Non sono parole autocompiaciute, anzi, i pareri di questi medici convergono su un fatto: per portare a termine quel “lavoro”, ci vogliono stomaci forti.
In un tweet, Leah Torres, membro di Planned Parenthood era arrivata a raccontare di aver reciso le corde vocali dei neonati, per non farli urlare durante l’aborto. In risposta a un utente che le sottolineava l’umanità del feto, la dottoressa ha replicato in modo gelido: «Gli esseri umani sono gravidi di altri esseri umani. Questo non si discute. Il problema sono i diritti degli esseri umani gravidi».
Nel suo saggio Abortion: Debating the Issue, pubblicato nel 1995, Nancy Dey, riportò la confidenza rivoltale da un medico pro choice: «Ogni volta che pratico un aborto ho sempre nella mia mente l’idea di porre fine a una vita umana». Compiere quell’atto, aggiunse il medico, è qualcosa che «ti consuma dentro molto velocemente» sul piano «emozionale. Quando fai un’ecografia, specialmente se hai figli, e vedi il feto che si muove, scalcia, vivo, facendo cose che faceva tuo figlio, portando il pollice alla bocca e cose del genere… è difficile. Poi, quando la procedura è terminata, a volte dobbiamo guardare il campione e vedere braccia e gambe strappate. Bisogna essere emotivamente molto forti».
A Lisa Harris, anche lei di Planned Parenthood, durante un seminario, è stato domandato come si dovrebbe reagire di fronte alle foto di feti abortiti, mostrate durante le manifestazioni pro life: «In realtà credo che dovremmo smetterla di negare la veridicità di quelle immagini», ha ammesso la dottoressa Harris. «Dovremmo renderci conto che, sì, è vero. Dato che vediamo il feto allo stesso modo e che siamo d’accordo sul fatto che ci sia della violenza nelle immagini, chiedetemi perché vado al lavoro tutti i giorni. Concediamogli tutto, la violenza, è una persona, omicidio… concediamogli tutto».
Un altro abortista molti anni fa scrisse sul British Medical Journal: «Posso dire apertamente che penso di porre fine a una vita ogni volta che pratico un aborto ma lo faccio in qualità di persona che ha determinate competenze che mette a disposizione di donne che non vogliono continuare la gravidanza». Praticare aborti aveva ‘aiutato’ l’anonimo dottore a «comprendere la lotta interiore che ogni donna affronta quando decide di abortire».
«Sto uccidendo? Sì. Lo so», ha affermato il dottor Curtis Boyd, che pratica aborti fino al sesto mese, ammettendo persino di pregare per le anime dei bambini da lui soppressi.
Gli fa eco il dottor William Harrison: «Nessuno, né il paziente né il medico, è all’oscuro di stare ponendo fine ad una vita».
C’è chi, come il dottor Neville Sender, si limita a dire che: «Ovviamente sappiamo che stiamo uccidendo un essere umano ma lo Stato lo permette in alcune circostanze».
Un altro abortista anonimo dichiara di avere «il più grande rispetto per la vita umana», aggiungendo, però, che possono esservi «ottimi motivi» per porvi fine, come «salvare la vita della madre» o evitare di «abbassare la qualità della vita» alla famiglia del nascituro abortito. «La vita è già abbastanza dura quando si ha un figlio voluto e tutto è pronto. Quindi sì, pongo fine a una vita, anche se è dura, lo faccio per una ragione valida». Un ragionamento, quest’ultimo, perfettamente coerente con la mentalità eugenetica: una vita è degna di essere tale, solo se compatibile con un concetto di benessere che, tuttavia, è profondamente arbitrario e contribuisce a creare nuove discriminazioni tra forti e deboli. In barba al tanto decantato principio di uguaglianza e alle tante conquiste sociali in nome di esso realizzate nell’ultimo secolo.
Luca Marcolivio
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