Non se ne parla più da mesi, eppure la minaccia gender non è scomparsa dallo scenario politico. Anzi, rischia di materializzarsi nuovamente da un momento all’altro. Forse è perfino già successo. O almeno questo viene da temere apprendendo della nuova Direttiva firmata dal ministro della Pubblica Amministrazione, Giulia Bongiorno, e dal sottosegretario con delega alle Pari Opportunità, Vincenzo Spadafora. Si tratta infatti di un provvedimento con cui si chiede di «utilizzare in tutti i documenti di lavoro (relazioni, circolari, decreti, regolamenti, ecc.) termini non discriminatori. Meglio quindi l’uso di sostantivi o nomi collettivi che includano persone dei due generi: avanti con la parola ‘persone’ al posto di ‘uomini’».
Non solo, questa Direttiva esorta pure l’adozione di iniziative «per favorire il riequilibrio della presenza di genere nelle attività e nelle posizioni gerarchiche ove sussista un divario fra generi non inferiore a due terzi». Inoltre, le Amministrazioni pubbliche dovranno «curare che la formazione e l’aggiornamento del personale, ivi compreso quello con qualifica dirigenziale anche apicale, contribuiscano allo sviluppo della cultura di genere, anche attraverso la promozione di stili di comportamento rispettosi».
Non occorre particolare fiuto per comprendere come espressioni quali «cultura di genere» e «termini non discriminatori» facciano il gioco del movimento arcobaleno. Se in aggiunta a ciò si considera, come si è appunto già detto, che detta Direttiva ha il suo sponsor nel sottosegretario con delega alle Pari Opportunità Spadafora – e cioè in una figura che fa per sua stessa ammissione da riferimento con il mondo Lgbt -, si comprende come siffatto provvedimento possa effettivamente risultare insidioso.
Anche perché non si comprende quale pericolosità, per esempio, possa avere il parlare di uomini o di donne anziché di persone; allo sesso modo, appare oscuro a quali preziosi traguardi possa condurre il trattare di «cultura di genere» anziché di cultura di rispetto. Si fa dunque fondata la sensazione che detta Direttiva possa fungere da cavallo di Troia per veicolare la cultura gender in seno all’Amministrazione pubblica.
Ovviamente, al momento si tratta solo di una possibilità. Ma non va dimenticato come quanti intendono propagandare il pensiero genderista quasi mai giochino a volto scoperto, finendo pertanto da un lato per negare l’esistenza della teoria gender – che in estrema sintesi nega il fondamento biologico di differenze tra i sessi che sarebbero, per tanto, da decostruire -, e dall’altro, per servirsi del paravento della lotta alle discriminazioni per veicolare ben altri contenuti.
Non resta quindi che appellarsi, dinnanzi ad una iniziativa simile, ai fortunatamente non così rari parlamentari che hanno a cuore i valori non negoziabili affinché possano vigilare in modo che la Direttiva per la pubblica amministrazione non diventi un pretesto per propagandare concezioni ideologiche che si servono del pretesto della lotta contro gli stereotipi e le discriminazioni per finire soltanto, nei fatti, nel propiziare una società di individui anonimi e senza identità, confusi e manipolabili, vale a dire perfetti sudditi.
Giuliano Guzzo
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