Sono un lavoratore dipendente, uno di quelli che deve pagare le tasse fino all’ultimo euro! Il mio stipendio base mensile è di 1.300 euro che servono per mantenere mia moglie e i miei tre figli. Le assicuro, che a volte, sopravvivere nella quarta settimana del mese è drammatico. I nostri governanti, soprattutto negli ultimi tempi, con varie manovre finanziarie, hanno previsto, tra l’altro, anche il ticket per l’accesso al pronto soccorso, oltre l‘aumento di quelli già in atto per gli esami diagnostici e i farmaci, penalizzando le famiglie come la mia e le persone povere e fragili. Non è questa un’evidente ingiustizia? Emanuele.
Sono totalmente d’accordo con Emanuele; i ticket in sanità, il più delle volte sono profondamente ingiusti, soprattutto quando interessano famiglie numerose, malati cronici, anziani e persone fragili. Ma vorrei andare oltre, inquadrando il quesito nella logica dei diritti, dei doveri e del bene comune, tralasciando ogni fastidioso giudizio sul governo che ha adottato i singoli provvedimenti, dato che leggi finanziarie molto onerose per il cittadino sono state approvate, negli ultimi decenni, sia da governi a guida centro-destra che centro-sinistra, oppure gestiti da tecnici. La finalità è sempre uguale: sostenere l’ingente debito pubblico, che prevalentemente si origina dallo smarrimento del bene comune. Di conseguenza, il problema non è unicamente economico, ma prevalentemente etico e culturale. L’indegna evasione fiscale, supportata dall’incertezza della pena, ne è un esempio tra i molti. La stessa condanna va espressa per le scandalose retribuzioni alle cosiddette «caste», dai politici ai calciatori, da chi opera nel settore finanziario e bancario ai magistrati, dagli amministratori ai sindacati, che pur continuamente accusati, rimangono indifferenti al bene comune. Come pure, vanno disapprovati, gli «enti inutili» che dovrebbero essere sciolti da anni ma nessuno interviene, e i rimborsi miliardari a determinate categorie ad iniziare dai partiti, compresi quelli sciolti da tempo, che percepiscono paperoniane somme. Una reale ingiustizia, perchè come ha affermato il 12 marzo 2012 il presidente della Corte dei Conti Luigi Giampaolini, la politica fiscale italiana non ha risolto le problematiche dell’emergenza finanziaria e del pareggio di bilancio rivedendo la spesa pubblica ed eliminando gli sprechi, ma unicamente spostando il carico tributario sui cittadini e le imprese, i più penalizzati d’Europa. Non occorre essere un economista per comprendere che l’attuale pressione fiscale deprime l’economia reale, riducendo i consumi delle famiglie e dei singoli ed aumentando la disoccupazione.
Per quanto riguarda l’ambito sanitario, l’attuale scenario sfavorevole ha alle spalle una storia di parecchi decenni che oggi influisce negativamente; l’aver escluso da questo settore, non solo le evidenze etiche ed umanistiche della cura, ma anche l’educazione ai doveri e ai diritti. Nel 1978, la legge 833, unificando in una singola istituzione l’apparato riguardante la salute del cittadino, offrì la possibilità a tutti di accostarsi gratuitamente alle cure, e lo Stato si fece carico dell’assistenza sanitaria dalla «culla alla tomba». Negli anni ’90 del XX secolo, a seguito dell’ ingente lievitazione della spesa sanitaria, dovuta prevalentemente ai costi delle nuove tecnologie, al passaggio dalla «medicina dei diritti» a quella «dei desideri» (la cura che prospetta soluzioni idilliache ai problemi legati all’identità e alla sfera psicologica), e al prolungamento dell’età media di vita, si è intervenuti con la logica delle tre «T»: tagli, ticket e tetti di spesa, riconoscendo allo Stato unicamente l’obbligo di assicurare uno standard minimo di prestazioni essenziali.
Quali elementi hanno causato questa catastrofe? Alcune cause indipendenti dal singolo cittadino ed una pessima amministrazione, ma anche ognuno di noi, utenti o operatori sanitari, abbiamo contribuito, magari inconsciamente e in piccola parte, al disastro. Penso all’incapacità di scelta tra «cure essenziali» e «cure secondarie», interventi primari ed opzionali, concessi unicamente, perché richiesti dal paziente ed enfatizzate dai massmedia o da internet. Inoltre, la scarsa accuratezza nel prescrivere esami diagnostici o l’imperizia nell’ assegnare, a parità di efficacia, i farmaci meno costosi, gli assenteismi, le ruberie e le molteplici frodi. Non possiamo tralasciare, infine, la chirurgia estetica, le operazioni di procreazione artificiale, gli screening prenatali e anche l’interruzione della gravidanza che aggravano notevolmente i bilanci finanziari. Ed ora, ci troviamo di fronte ad una sanità, che molti hanno definito un «malato complesso».
Non saranno i ticket a risolvere il problema avendo dimenticato che questi provvedimenti restituiranno in negativo cattivi frutti, con un aumento nel futuro dei costi sanitari, dovuti al peggioramento globale della salute dei cittadini. Gli ammalati cronici diraderanno gli esami o non assumeranno delle terapie e gli apparenti sani non si controlleranno adeguatamente. Unicamente le valenze etiche dell’equità, dell’uguaglianza, della giustizia e della responsabilità, potranno essere il trait-d’union tra salute ed economia, suggerendo le modalità per intersecare le politiche economiche ai bisogni di salute. Per questo, è urgente educare il cittadino nei riguardi della propria salute sia sul versante delle cause che delle conseguenze, trasformandolo da consumatore passivo dei servizi sanitari e dei farmaci ad attore della sua salute, rammentando che più cure non equivale sempre a maggiori benefici.
In che modo uscire da questa situazione che da decenni ci logora? Come eliminare i comportamenti scorretti? Rieducandoci tutti al bene comune definito dal Concilio Vaticano II: «l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono, sia alle collettività sia ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più celermente» (Gaudium et spes, 26), ma «è un bene arduo da raggiungere, perché richiede la capacità e la ricerca costante del bene altrui come se fosse il proprio» (Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 167). La responsabilità nei riguardi del bene comune non prescinde dalla ricerca del proprio benessere; postula contemporaneamente l’esigenza di valutare l’altrui interesse alla pari del proprio. Operare per il bene comune si esprime nel riconoscere, nel rispettare e nel concretizzare i diritti di tutti i componenti della società. Il bene comune non è utopia o un’idea astratta; sono comportamenti da ricostruire, oltrepassando la nostrana abitudine che individua, sempre e comunque altrove, le responsabilità di quello che avviene.
don Gian Maria Comolli