L’Europa si è disunita quando ha cominciato a seguire la sola via dei diritti soggettivi senza più doveri. Questo ha diviso i popoli dall’ideale europeo.
L’integrazione europea? “Un valore in sé”. I sovranismi? “Un’esasperazione della sovranità, che la stravolge in chiusura ed esclusione”. Non manca del dono della sintesi Paul Richard Gallagher, arcivescovo, dal 2014 segretario per i rapporti con gli Stati della Santa Sede al Meeting di Rimini per partecipare a un dibattito su “Diritti, doveri. Europa 1979-2019”, con Enrico Letta, presidente dell’Istituto Delors, Enzo Moavero Milanesi, ministro degli Affari esteri e Nicola Renzi, omologo di quest’ultimo per San Marino. Gallagher, nato nella città dei Beatles, Liverpool, 65 anni fa, ha una vastissima esperienza internazionale, essendo stato osservatore della Santa Sede al Consiglio Europeo, nunzio apostolico in Burundi, Guatemala e Australia, prima dell’incarico attuale. Coordina le relazioni del Vaticano con oltre 180 Stati di tutto il mondo.
Il Regno Unito esce dall’Europa. Forze politiche di vari Paesi raccolgono consensi con posizioni anti-europee. La stessa Unione Europea stenta a proporsi con una visione e una politica chiara. Perché lei sostiene che l’integrazione europea è un valore in sé?
Per la stessa ragione per cui Alcide De Gasperi, nel 1948, sosteneva che la libertà si afferma e cresce nella pace, e dunque occorre la solidarietà e la cooperazione fra i popoli e le nazioni europee, e insieme una salvaguardia equilibrata dei diritti e dei doveri per tutti i cittadini.
Lo spirito di cooperazione oggi è contrastato dai sovranismi.
L’idea di sovranità in sé è giusta. Ma nel dibattito pubblico di questi anni la parola è pronunciata o gridata per sostenere non solo e non tanto il suo significato giuridico e costituzionale, cioè l’autodeterminazione e la libertà dei popoli e delle nazioni. Le posizioni cosiddette sovraniste introducono ed esaltano una dinamica che tende a chiudere e ad escludere. Insistere esageratamente sulla sovranità con queste connotazioni è un pericolo. Papa Francesco più volte ha esortato a fare attenzione. Se vogliamo un’Europa forte e unita occorre apertura, dialogo, collaborazione.
L’Europa del dopoguerra fa dell’affermazione dei diritti una sua bandiera. Dove sta il problema?
Nel disequilibrio tra diritti e doveri che si è progressivamente creato. Già quindici anni fa, quando venni nominato da Giovanni Paolo II osservatore vaticano presso il Consiglio Europeo, in Europa si poteva parlare solo di diritti, non di doveri. La proliferazione di diritti individuali, talvolta in contraddizione tra di loro e spesso privi di un corrispettivo di dovere, è una conseguenza della perdita di riferimento all’oggettività.
Il dominio del soggettivismo, come ha sottolineato papa Ratzinger?
Sì. O la moderna colonizzazione ideologica, detto con le parole del pontefice attuale, fortemente laicista, che esclude la dimensione religiosa dalla vita sociale e dallo spazio pubblico e che mette Cesare contro Dio. La soggettivizzazione dei diritti ha indebolito l’uomo europeo.
La crisi, o la difficoltà, dell’Europa non è dunque solo al livello politico ed economico.
La frammentazione è innanzitutto dell’esistenza. Guardiamo a cosa prevale: solitudine, individualismo, crisi della famiglia, spinte di razzismo, generale indifferenza etica, cura dei propri privilegi.
È la sua fotografia dell’uomo europeo attuale?
No, è il monito di Giovanni Paolo II 16 anni fa. Mi dica se non fu profetico.
C’è chi sottolinea una discontinuità tra la posizione di Wojtyła, che sottolineava le radici cristiane dell’Europa, e quella di Bergoglio.
C’è perfetta continuità. Naturalmente i contesti storici sono molto cambiati. Papa Giovanni Paolo II promuoveva un’Europa che respirasse con due polmoni, cioè non solo con i paesi liberi occidentali, ma anche quelli oltre cortina, come si diceva allora. Oggi c’è una crisi dell’Europa allargatasi ad Est, una crisi interna di identità, e uno scombussolamento dovuto alla crisi mondiale iniziata più di dieci anni fa. La crisi finanziaria che ha indebolito l’euro. La Brexit. I populismi e i sovranismi. Le fratture fra gli Stati in politica internazionale e rispetto ai fenomeni migratori. In sintesi direi la rottura tra i popoli e l’ideale europeo, favorito spesso da politiche spinte dall’emotività a una navigazione a vista e non da una vera visione complessiva.
Allude alle politiche rispetto al fenomeno delle migrazioni, cui lei ha fatto cenno poco fa? Nei paesi più esposti, come l’Italia, c’è la paura che i propri diritti e la propria sicurezza non siano adeguatamente tutelati. In un certo senso torniamo al tema dei diritti.
Occorre una chiara visione politica all’altezza della realtà dei nostri tempi. Ma anche, e direi prima, una posizione culturale che ci liberi dalle secche delle diatribe. Il tema di fondo è quello che richiama Francesco: la persona.
Che guarda caso è valore primario del cristianesimo e dell’Europa…
Sì. In primo piano va messa, sempre, la persona; il resto viene dopo. Non ci sono numeri, ma persone, con una dignità trascendente e con una coscienza morale impresse da Dio. Ognuno è un volto, definito dal rapporto con il mistero infinito. Un volto, o un nome, come richiamato nel titolo del Meeting. Dire persona significa valorizzare ciò che unisce me all’altro, quindi fare comunità: altra parola essenziale della tradizione europea.
In pratica, come si dovrebbe affrontare il fenomeno delle migrazioni?
Provando a mettere in primo piano la parola dovere. Il dovere della solidarietà con chi è nel bisogno e in pericolo, che parte dalle beatitudini evangeliche ma investe ognuno di noi e gli Stati stessi. In secondo luogo, non sbilanciando i doveri, privilegiandone uno rispetto a un altro. In pratica è la virtù della prudenza cui richiama Francesco. Cioè accogliere quanti possono effettivamente essere degnamente accolti, avere un lavoro, una famiglia, un futuro.
Un dovere in capo prevalentemente all’Italia?
Non deve essere così. C’è un dovere di solidarietà fra gli Stati.
E i migranti non hanno doveri?
Certo che ne hanno. Hanno il dovere di conoscere e aprirsi alla realtà che li accoglie, a non chiudersi in ghetti dove i problemi si acuiscono invece che risolversi. Se si fanno le cose bene, è un’opportunità anche per chi accoglie.
La politica vaticana in che modo può aiutare questi processi?
Con le relazioni costanti, il dialogo, lo scambio di giudizi e di suggerimenti, la collaborazione. Avendo al centro la persona.
Maurizio Vitali
22.08.2019
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