Sabato scorso ho tenuto una relazione sull’Umanizzazione della Medicina a un convegno per operatori sanitari a Marina di Massa. Vorrei condividere con voi alcuni input che ho lanciato.
Sono partito da una constatazione.
Il mondo occidentale, dispone oggi in sanità, delle tecnologie migliori della storia sia a livello diagnostico che terapeutico, di un’assistenza estesa nelle prestazioni a tutta la popolazione, di
una discreta autonomia del paziente, di accettabili standard alberghieri…, eppure, troppe volte, siamo informati di episodi di “malasanità” e vari malati sono insoddisfatti per la carenza di umanità, di benevolenza, di pietà e di carità assenti in varie strutture sanitarie. Potremmo dire per l’assenza di “umanizzazione”!
Allora mi sono chiesto: cos’è l’umanizzazione?
L’ospedale, come rispecchia l’etimologia, dovrebbe essere il luogo ospitale che accoglie e cura e “l’humanitas” dovrebbe costituire un atteggiamento caratteristico dell’operatore sanitario. Non a caso nell’ethos ippocratico la “philantropia” procedeva parallelamente con la “philotechnia”. Ad esempio, in Francia, nel tardo medioevo e nel rinascimento, l’ospedale era anche denominato “l’Hotel du bon Dieu”, ossia “l’Albergo del buon Dio”, dove vigeva il motto: “Se sei malato vieni e ti guarirò, se non potrò guarirti ti curerò, se non potrò curarti ti consolerò”. Inseguito, i progressi della medicina, hanno estromesso le dimensioni umane e religiose, giungendo, con il trascorrere dei secoli, a strutture che irresponsabilmente hanno opposto la tecnica alla cura. Per questo, oggi, è indispensabile intervenire affinché le opportunità terapeutiche non si traducano in anonimi trattamenti tecnici a scapito dell’incontro con l’ammalato e con le sue sofferenze.
Umanizzare, dunque, significa “prendersi cura” in modo esemplare del malato nella sua globalità in un contesto di sempre maggiore frazionamento e specializzazione. Dunque, l’umanizzazione “non è sentimentalismo”, ma “il sentimento” che accompagna l’intelligenza e la volontà nell’esercizio dell’arte sanitaria; per questo assume una consistente “valenza culturale”.
L’umanizzazione non è un’operazione di facciata, ma “un’identità culturale e uno stile di comportamento” che dovrebbe coinvolgere tutti coloro che, a vario titolo, operano in sanità: dagli amministratori alle figure apicali, dagli operatori sanitari ai volontari.
Unicamente l’umanizzazione consente l’equilibrio tra la “scienza della medicina” e “l’arte della medicina” riconducendo ogni atteggiamento e azione all’umano. Soltanto adottando questa metodologia, sarà possibile “prendersi cura” dell’altro con la profonda convinzione dell’unicità, dell’identità e del valore di ogni individuo che implora l’attenzione anche ai suoi disagi psichici e spirituali.
L’umanizzazione è un’ “alleanza terapeutica”; un patto ideale tra operatori e bisognosi d’aiuti, che dovrebbe motivare e sorregge ogni momento e gesto della cura.
Ma gli operatori sanitari di oggi, dopo un boom dell’umanizzazione negli scorsi decenni, sono ancora partecipi di questo modello assistenziale? Visionando vari corsi ECM (Educazione Continua in Medicina) proposti dalle Aziende Sanitarie ho l’impressione che questo aspetto, e più in generale le “scienze umane”, suscitino scarso interesse e ciò è molto preoccupante, poiché unicamente dall’umanizzazione degli operatori sanitari scaturisce una cura umanizzata. E questo è ciò quello implora accanto alla professionalità il malato. Da qui l’invito a ripensare i percorsi formativi per “aver cura delle professioni di cura”.
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