Nostra Signora del Web

By 30 Ottobre 2019Web e Comunicazione

Contro la secolarizzazione virtuale la Chiesa corre ai ripari evangelizzando la Rete. Benedetto XVI è stato tra i primi leader mondiali a comprendere profeticamente e a denunciare i pericoli dei social sulla tenuta morale della società e sulle condotte pubbliche e private. Il suo successore Francesco ha proseguito nel solco tracciato da Joseph Ratzinger e ha rinnovato l’assetto della comunicazione vaticana per renderla più confacente alle mutevoli esigenze della contemporaneità globalizzata.

L’origine della web-evangelizzazione

La Chiesa impara a comunicare al Concilio e, a mezzo secolo dal Vaticano II, Francesco ha completato la rivoluzione linguistica. Nel 2013 si è celebrato il 50° anniversario del decreto conciliare Inter Mirifica, con il quale si concede una sorta di cittadinanza ai mezzi di comunicazione, che vengono riconosciuti come strumento importante per la vita della Chiesa, e per questo si chiede ai pastori di usarli efficacemente, come ha scritto l’arcivescovo Claudio Maria Celli, ministro vaticano delle Comunicazioni. Nella fase preparatoria del Concilio Vaticano II, l’ambito della comunicazione non fu considerato come un orizzonte strategico per la Chiesa o per il futuro dell’umanità: “Delle 9.348 proposte di tema per i lavori del futuro concilio, solo 18 facevano riferimento alla comunicazione. Fu Giovanni XXIII che desiderò introdurre il tema dei mezzi di comunicazione nell’agenda conciliare”. Alla fine si approvò il documento con 1.969 voti a favore e 164 contrari. Fu il documento che ebbe più voti contrari. Il suo varo, secondo Celli, fu provvidenziale, in quanto diede il via a un processo di assimilazione dei mezzi di comunicazione sociali nella vita della Chiesa. Il documento conciliare diede due mandati chiari: creò la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali e chiese che si cominciasse a redigere un’istruzione pastorale, che fu poi pubblicata nel 1971 con il titolo Communio et Progressio. Insomma, si iniziò a consolidare l’interesse della Chiesa per i mezzi di comunicazione: l’istituzione ecclesiale non si limitava ad essere un censore, cercava, anzi, di motivare i pastori ad interessarsi al mondo della comunicazione, invitandoli a mantenere una mente aperta di fronte alle opportunità che i media offrivano nel campo dell’evangelizzazione.

L’intuizione di Paolo VI

Da un lato, rimase chiaro che la testimonianza di una vita cristiana autentica fosse il primo mezzo di evangelizzazione; così affermava anche Paolo VI nel 1975: “È dunque mediante la sua condotta, mediante la sua vita, che la Chiesa evangelizzerà innanzitutto il mondo, vale a dire mediante la sua testimonianza vissuta di fedeltà al Signore Gesù, di povertà e di distacco, di libertà di fronte ai poteri di questo mondo, in una parola, di santità” (Evangelii Nuntiandi 41). Dall’altro lato, invece, andò crescendo l’interesse per gli aspetti tecnici della comunicazione; i sacerdoti e, in generale, gli addetti alla pastorale, fecero propri i mezzi di comunicazione di massa tra gli anni Settanta e Ottanta, stimolati dall’invito fatto da Paolo VI con le celebri parole: “La Chiesa si sentirebbe colpevole di fronte al suo Signore se non adoperasse questi potenti mezzi, che l’intelligenza umana rende ogni giorno più perfezionati; servendosi di essi la Chiesa “predica sui tetti” il messaggio di cui è depositaria; in loro essa trova una versione moderna ed efficace del pulpito. Grazie ad essi riesce a parlare alle moltitudini” (Evangelii Nuntiandi 41).

Il megafono del bene

Con il Concilio la Chiesa iniziò ad utilizzare gli strumenti di comunicazione di massa, concependoli come un megafono mediante il quale annunciare il Vangelo, con la convinzione sottostante che maggiore fosse stata la quantità dei mezzi di comunicazione più ampia sarebbe stata l’efficacia della comunicazione stessa; si sviluppò, inoltre, il dibattito, che dura ancora oggi, circa la necessità d’avere mezzi propri o di essere presenti nei mezzi non cattolici. Con l’espansione e la globalizzazione di Internet negli anni Novanta, il panorama cambiò radicalmente. Il fenomeno della globalizzazione influenzò tutte le sfere della vita della persona. Questa nuova realtà presentò nuove opportunità e nuove sfide. Il paradigma della comunicazione nella vita degli esseri umani si trasformò, si smise di parlare di mezzi o di strumenti di comunicazione di massa. Giovanni Paolo II, all’inizio degli anni Novanta, fece notare che la Chiesa stava assistendo alla trasformazione degli strumenti di comunicazione sociale, che iniziavano ad essere concepiti come un ambiente che la Chiesa deve abitare ed evangelizzare (Redemptoris Missio, 37). In molti ambiti, però, la Chiesa non ha ancora cambiato il proprio paradigma comunicativo, in quanto si preferisce rimanere legati al vecchio schema secondo il quale i mezzi di comunicazione sono come dei megafoni e non come un ambiente da vivere. A giudizio di Celli, finché l’idea di comunicazione apparterrà al passato si continuerà a realizzare una pastorale che parla con un linguaggio non comprensibile alla società attuale e gli sforzi fatti per la costruzione di uffici di comunicazione e di siti web risulteranno inefficaci. Dunque, solamente un atteggiamento d’apertura verso la conversione pastorale consentirà di valorizzare la comunicazione come una testimonianza dialogante e rispettosa, che ha bisogno anche di spazi di formazione: l’itinerario da seguire in questo processo ecclesiale – nell’ambito della comunicazione – è tracciato dai messaggi che i pontefici hanno offerto nelle ultime decadi. Quindi, il problema della comunicazione nella Chiesa non è collegato alla mancanza degli strumenti tecnici atti a realizzare una buona comunicazione, ma molte volte all’incapacità di adattarsi al nuovo contesto comunicativo ed alle sue caratteristiche di orizzontalità, interattività e velocità. Insomma, si è aperta una nuova era per la comunicazione ecclesiale.

Il grande comunicatore che non guarda la tv

Tutti concordano sul fatto che Francesco è un grande comunicatore, anche se non dedica più di dieci minuti ai giornali o non vede la televisione dal 1990. Parafrasando padre Rupnik, teologo e grande artista contemporaneo, si può affermare che siamo di fronte ad un nuovo cambio d’epoca. La modernità come viene comunemente intesa, spinta dall’intelletto e dalla ragione, mostra i suoi limiti. E si apre un ciclo nel quale la cultura, la vita, il simbolo e la poetica ricoprono un’importanza notevole. Ne è una conferma il peso che si dà a temi come l’ecologia o l’alimentazione di fronte alla macroeconomia. Francesco dà voce alla tendenza dell’epoca postmoderna: la riscoperta dell’uomo libero da astrazioni e intellettualismi. Le sue parole nascono dell’interpretazione dei segni del tempo. Bergoglio incarna la risposta efficace alla reale sfida della comunicazione. Non si tratta, secondo Celli, di un problema che riguarda i mezzi o gli strumenti da utilizzare, ma piuttosto di un problema che riguarda la comunione, la vicinanza e soprattutto la testimonianza di un Dio misericordioso. Ciò non significa edulcorare il messaggio del Vangelo per far sì che sia più vicino alla società, ma al contrario affermare l’esigenza di una radicalità della vita cristiana. Oggi la Chiesa, nel campo della comunicazione, deve anche essere capace di recuperare l’universo simbolico nella capacità creatrice della parola e nel potere evocatore dell’immagine. Per Celli questi due elementi offrono nuove possibilità di rinnovamento del linguaggio, che deve essere capace di creare nelle differenti culture luoghi dove sia possibile percepire la presenza del sacro sia a livello personale che comunitario. Perciò, mistica e social.

La nuova evangelizzazione ha un cuore antico

Gli apologisti e i Padri come Girolamo, Agostino, Ambrogio si sono serviti degli strumenti dell’oratoria greca e latina per presentare la dottrina della Chiesa e renderla più accettabile e comprensibile a uditori e lettori, come osserva l’arcivescovo Vincenzo Bertolone, presidente della Conferenza episcopale calabra. Tommaso d’Aquino è ricorso alla filosofia greca per la medesima finalità. La Chiesa è stata sempre molto avveduta nel discernere ed accogliere gli strumenti più opportuni, secondo la regola aurea “est modus in rebus”, per annunciare la Buona Novella. Anche oggi è necessario proseguire su questa linea. Quindi il futuro dell’evangelizzazione e della mistica cattolica consisterà sempre di più nel fare rete con le emittenti radiotelevisive del territorio, con una presenza sui social network e internet. “Le sfide saranno molte, ma si dovrà soprattutto puntare alla qualità, alla formazione e all’innovazione per attirare e coinvolgere i giovani e non solo loro”, puntualizza l’arcivescovo metropolita di Catanzaro-Squillace. “Dovranno essere soprattutto i sacerdoti delle nuove generazioni che dovranno imparare anche sui banchi di scuola come gestire la catechesi e la mistica della Chiesa sui social network. Ma anche i preti maturi possono e devono impegnarsi in questo che è il linguaggio del nostro tempo”. Inoltre, il “cartaceo” serve ancora, ma è destinato a integrarsi col digitale; i giovani leggono sempre meno e, per non tagliarli fuori, la Chiesa deve trovare delle forme per andare loro incontro. Sacerdoti e presuli devono parlare dei loro mondi vitali e con il loro linguaggio: musica, sport, affettività, moda, scuola. Ma lo sviluppo dei social e di ogni altra forma comunicativa odierna non è un fatto meramente tecnico. La sfida per tutti, e soprattutto per i pastori, non è solo imparare ad usare questi strumenti ma farne un’occasione di incontro col mondo presente.  Più profondamente, secondo Bertolone, i nuovi mezzi di comunicazione sono mezzi e modalità in cui abitare, in cui semplicemente stare, il che significa che ad un approccio che rischia il moralismo (verificare se sono buoni o cattivi e vanno usati o meno) è da preferirsi un approccio esistenziale: essi esprimono una mentalità, un modo di pensare, un codice interiore delle persone, uno stile. E ciò perché è possibile usare benissimo gli strumenti, ma allo stesso tempo avere una mentalità vecchia e un linguaggio incapace di comunicare. Per questo Francesco invita, solo per citare uno degli ambiti comunicativi, a preparare omelie brevi, efficaci, che parlano le parole della vita e del popolo. I sacerdoti devono essere capaci di esprimere la ricchezza di un Vangelo domenicale anche nei 140 caratteri di un tweet, perché questo è lo stile e il mondo dell’uomo odierno. Francesco esorta a cambiare il modo di comunicare, a dare parole di speranza, ad essere attenti ai poveri e a chi non ha voce e a curare sempre la formazione, “leggendo” i problemi della gente con la prospettiva antropologica cristiana tramite la presenza capillare nelle reti sociali. La predicazione di Francesco ai tempi del Web: oggi moltissime persone trascorrono gran parte del loro tempo nel mondo virtuale. Alcuni tengono aperti i social network per tutta la giornata. In questo modo la vita virtuale diventa sempre più lo spazio nel quale le persone vivono. Queste nuove forme di comportamento stanno ponendo una grande sfida, un’opportunità alla Chiesa e all’annuncio del suo messaggio. La verità della fede, secondo Bertolone, non è cambiata, la tradizione non è mutata, ma la gente delle diocesi vive in un nuovo mondo.

Il futuro è qui adesso

Il futuro della comunicazione che ci era stato prospettato tanto tempo fa è già qui, adesso. La sfida degli evangelizzatori è sempre stata quella di incontrare le persone là dove vivono e, sempre di più, ciò significa andare on line. Se persone di ogni età si muovono in queste gigantesche reti, i pastori devono esserci, dialogando con esse. Ci sono diverse prospettive per considerare l’utilizzo dei social media nell’evangelizzazione e nei percorsi ascetico-spirituali. Una di queste è considerare i nuovi media come l’ennesimo strumento per raggiungere le persone con il messaggio del Vangelo. Attraverso le varie possibilità bisogna raggiungere le periferie e le persone, perché possano ascoltare la Parola di Dio e comprenderla meglio. Il mondo digitale, a giudizio di Bertolone, va considerato come un nuovo spazio che in se stesso necessita di essere evangelizzato: bisogna uscire dalle chiese per dialogare con le persone nei loro ambienti, nei loro spazi vitali. È ciò che Francesco invita a fare utilizzando perfino i tweet. Per lui è questa la nuova via dell’evangelizzazione e dell’impegno pastorale, perché permette di essere presenti nella vita delle persone. E così l’interpretazione dell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium non può prescindere dalla considerazione del pieno utilizzo della potenzialità dei social media: essere presenti nella vita delle persone e condividerne gioie e dolori. Anche sotto il profilo della comunicazione il rapporto fondamentale è quello tra Giovanni XXIII e Francesco. Entrambi sono strettamente connessi al Concilio. Il primo ha indetto il Concilio e Francesco, primo papa che non ha partecipato al Vaticano II, indice un Giubileo a 50 anni dal Concilio, sulla cui scia egli si pone decisamente. Lo afferma la Bolla di indizione dell’Anno Santo della Misericordia, nella quale Francesco vi si riferisce esplicitamente quando cita il discorso di apertura del Papa: “Ora la sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore”.Proprio nello stesso paragrafo cita anche il discorso di Paolo VI all’ultima sessione plenaria, l’8 dicembre 1965: “L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio”.  “Una corrente di affetto e di ammirazione si è riversata dal Concilio sul mondo umano moderno”. Per questo si può accostare senza esitazione il “Papa buono” al “Papa della misericordia e della tenerezza”, che attraverso gesti e parole predica quotidianamente la necessità e il bisogno della misericordia che riceviamo gratuitamente da Dio e che gratuitamente dobbiamo riversare nella vita del mondo. In una prospettiva autenticamente globale, non più eurocentrica, tanto più che nell’America del sud sono state accolte e vissute alcune dimensioni del Concilio che in Europa si devono ancora radicare.

Come Bergoglio comunica il Vangelo

Francesco è un vescovo che vive nel profondo la rivoluzione del Concilio, che chiedeva una riforma della Chiesa. Lo spirito del Vaticano II vive nelle sue parole, nelle omelie, in un’idea di Chiesa madre di umanità, che guarda con simpatia a tutti. “Bergoglio ha colto quelli che il Concilio chiama i segni dei tempi”, puntualizza Spreafico, ex rettore della Pontificia Università Urbaniana. “Lo ha fatto di fronte alla guerra in Siria, a Cuba, e lo fa continuamente davanti a un mondo europeo impaurito e un po’ miope, concentrato su di sé senza una visione del futuro e della storia nella sua complessità”. I suoi viaggi a Lampedusa, in Albania, in America Latina, in Africa, dove ha voluto aprire l’Anno Santo in un paese poverissimo e travagliato dalla guerra come il Centrafrica, sono da leggere nella prospettiva di una Chiesa che si fa vicina senza paura a chi soffre, come una madre ai suoi figli. In questo papa Francesco coglie una missione della Chiesa per il mondo e nel mondo e non solo una Chiesa che parla ai “suoi”. L’ecumenismo di Bergoglio, evidenzia Spreafico, si riallaccia all’incontro di Giovanni XXIII con Jules Isaac del 13 giugno 1960, che gli parlò della teologia del disprezzo e dell’antisemitismo. Giovanni XXIII conosceva la sofferenza degli ebrei da delegato apostolico a Istanbul, dove si era adoperato per la loro 114 Il Concilio di Francesco salvezza. Ma il “Papa buono” conobbe prima a Sofia, poi a Istanbul, poi a Parigi e infine a Venezia anche il mondo dell’ortodossia e della riforma, con cui si aprì a un rapporto cordiale. La Nostra Aetate affonda le sue radici lì, come del resto l’apertura al dialogo ecumenico, su cui Paolo VI pose una pietra miliare nel suo incontro a Gerusalemme con il patriarca ecumenico Athenagoras.

Giacomo Galeazzi

9 ottobre 2019

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