La testimonianza di un lavoratore nell’impianto di Taranto. Ciò che sta accadendo è un richiamo a rimettere al centro dell’azione il compito di ciascuno, che è insostituibile.
Gentile direttore,
mi permetto di scriverle a proposito del caos scatenatosi all’annuncio dell’invio delle lettere di avviso di recesso che ArcelorMittal InvestCo ha recapitato ai commissari straordinari di Ilva in amministrazione straordinaria.
Lungi dal voler proporle soluzioni o scenari, desidero offrirle la mia esperienza di lavoratore nell’impianto di Taranto e di figlio di questa terra.
Ci tengo a sottolineare che parlo a titolo personale.
In questa situazione apparentemente senza via d’uscita è palese l’occasione che ci è offerta come comunità per riscoprire che il bene comune non è un’idea astratta, bensì qualcosa che accade storicamente. E quello che sta accadendo a Taranto – così come a Genova, a Novi Ligure e negli altri impianti in Italia – richiama ciascuno a porsi l’interrogativo circa il proprio compito all’interno della società.
In tanti troviamo ammirevole il coraggio con cui il presidente Giuseppe Conte ha voluto farci sentire la sua vicinanza, visitandoci. Ma questa è una politica di pura reazione che, troppo distratta a rincorrere indici di popolarità, si risveglia all’improvviso per gestire emergenze annunciate che non ha saputo prevenire. Perché ciò che sarebbe avvenuto a fronte dell’eliminazione della tutela legale era stato dichiarato a più riprese, come a ottobre, in audizione davanti alla Commissione Attività produttive.
A voler leggere i segni dei tempi, questa non è una semplice ciclicità negativa del mercato dell’acciaio. Siamo protagonisti di un cambiamento d’epoca: sia sul fronte della capacità produttiva globale che per quanto concerne l’attenzione alla sostenibilità ambientale.
Dagli anni Settanta l’impianto di Taranto è dimensionato per produrre 10 milioni di tonnellate: il siderurgico di Taranto contava 35mila lavoratori tra dipendenti e indotto. Era quella un’epoca in cui poco ci si curava delle ricadute su ambiente e salute. Abbiamo davanti agli occhi le testimonianze drammatiche degli effetti di quelle mancate considerazioni.
Non si può guardare a Taranto senza tenere conto della sua storia particolare. Quinto Orazio Flacco la chiamava la “molle et imbelle Tarentum”, per esaltarne la naturale predisposizione alla tranquillità. Tranquillità trasformatasi in indolenza quando lo Stato, per risolvere la questione meridionale, decise di farne a più riprese la terra dell’assistenzialismo.
L’intera città è stata plasmata attorno a questa monocultura industriale, tanto nella sua identità, quanto nella sua morfologia. Alessandro Leogrande, giornalista tarantino scomparso prematuramente, affronta questo tema in alcuni capitoli del suo bellissimo Dalle macerie.
Nell’approcciare una situazione del genere va considerata la storia dello stabilimento e di questa terra. Una storia di statalismo sotto Italsider, in anni in cui il posto di lavoro era spesso merce di scambio. La conseguente gestione nell’epoca Riva. I difficili anni del commissariamento. L’azione di un sindacalismo non sempre al passo coi tempi. Aspetti che hanno plasmato la cultura aziendale.
La politica, i mercati, la storia del territorio e dell’azienda, il contesto socio-culturale: tutto sembra remare contro una soluzione positiva.
L’altro giorno in un reparto mi hanno mostrato una saldatura talmente bella, talmente precisa, da farmi commuovere. E ho avuto modo di testare la reale preoccupazione di una squadra di tecnici specializzati, affranti dall’ennesimo ribaltone di cui sono vittime. Gente in grado di riportare in vita componenti che pesano decine di tonnellate. Eccellenze, purtroppo, spesso ignorate.
Di fronte a questi uomini e al loro lavoro, mi è parso chiaro che questa che ci troviamo ad affrontare sia una grande occasione. L’occasione della riscoperta del compito di ciascuno. Compito che possiamo solo comprendere in relazione con l’altro.
In una congiuntura sfavorevole come quella attuale, con questa storia e questa complessità operativa, non è facile arrivare a scardinare consuetudini deteriori figlie di un’epoca passata. Ci vuole tempo, bisogna investire sul capitale umano, agire di concerto, implementare strumenti di governance per allineare gli interessi delle parti coinvolte. Ma per far questo bisogna dialogare. Vincere le ultime resistenze che ci forzano a guardare sempre e soltanto al nostro interesse particolare.
Purtroppo la velocità dei mercati mal si sposa con i tempi di un cambiamento del genere. Ed è qui che lo Stato potrà essere d’aiuto, se saprà liberarsi dalla tentazione di rispondere con un facile assistenzialismo, di cui questa terra sembra essere drogata e mai paga.
Non è mia intenzione addolcire la medicina, ma probabilmente, se il piano industriale fosse filato via liscio, non ci saremmo accorti della portata dell’occasione che abbiamo di fronte. Non ci saremmo accorti, cioè, che la realtà sta mostrando a tutti – politici, lavoratori, cittadini, imprese – di avere una possibilità meravigliosa: metterci in relazione, per scoprire chi siamo, riscoprendo ogni giorno il nostro compito nella società.
La possibilità di riconoscere il bene comune, e rimetterlo al centro dell’azione di ciascuno.
Cordialmente,
Andrea Manfreda
13 novembre 2019