“Sostenere che non ti interessa il diritto alla privacy perché non hai nulla da nascondere non è diverso dal dire che non ti importa della libertà di parola perché non hai nulla da dire.” Edward Snowden
Il dibattito di questi giorni sull’anonimato in Rete (se ne parla da almeno 20 anni) è dovuto a un tweet del deputato di Italia Viva Luigi Marattin, in cui annuncia che sta pensando di lavorare a una legge contro l’anonimato online contro l’odio e la disinformazione. Lo ha fatto ritwittando un tweet del regista Gabriele Muccino che chiede l’obbligo di registrarsi ai social media solo consegnando la propria carta di identità.
Io penso abbia ragione, e lavorerò in parlamento per questo. Chi mi aiuta? https://t.co/hZXDj1SmE1
— Luigi Marattin (@marattin) October 28, 2019
Marattin sbaglia e sbaglia sia nel metodo che nel merito e vediamo perché.
Il metodo
Dopo il tweet-annuncio il deputato ha rilasciato alcune interviste da cui si evince che: non ha una proposta ben strutturata. Non conosce per niente la materia su cui vorrebbe legiferare. Non ha consultato o si è confrontato con nessun esperto prima di fare quell’annuncio. Una improvvisazione vera e propria, sull’onda emotiva probabilmente di quel tweet di Muccino. Qui stiamo parlando di cose molto serie, delicate e complesse come appunto odio e disinformazione, che tra l’altro vanno trattate in modo separato perché sono argomenti e problematiche diverse che necessitano approcci diversi. Come ha fatto notare Ernesto Belisario su Facebook: “Insomma, un parlamentare non avverte il bisogno di documentarsi prima di legiferare su materie così complesse e delicate per la democrazia e i diritti delle persone. Solo io lo trovo davvero grave e intollerabile?”
Prima di annunciare una misura legislativa un politico ha il dovere di informarsi, studiare, capire la portata del fenomeno. Perché solo così può davvero avanzare proposte applicabili, utili, efficaci. E in un eventuale deterioramento di diritti, fare un bilancio ragionato su cosa perdiamo e cosa acquistiamo con quella misura.
Marattin non ha fatto niente di tutto questo, mancando profondamente di rispetto verso tutti i cittadini.
Per giorni esperti, docenti, studiosi hanno risposto in modo civile al deputato con argomenti solidi e in maniera competente. La sua risposta è stata ignorarli e poi dileggiarli.
Come si arrabbiano eh, quando annunci di voler far qualcosa per impedire che il web rimanga la fogna che è diventato (una fogna che sta distorcendo le democrazie, invece che allargarle e rafforzarle). Si mettano l’animo in pace. Il limite è stato superato, ed è ora di agire.
— Luigi Marattin (@marattin) October 29, 2019
Infine ha lanciato una petizione per fermare le fake news e i profili falsi online, raccogliendo firme false su una piattaforma che non rispetta la normativa sul trattamento dei dati personali. Dando ulteriore dimostrazione di inadeguatezza rispetto a un mondo che conosce molto poco.
Il merito
Abolire l’anonimato non avrà nessun effetto su odio e disinformazione. Perché? Andiamo per ordine. L’odio. La maggior parte delle persone odia con il proprio nome e cognome, mettendoci orgogliosamente la faccia. Semmai usano un nickname che non è propriamente anonimato. Significa che si sono registrati con il nome vero ma poi hanno scelto di comparire online con un “soprannome”. In pochissimi hanno l’abilità di muoversi online dietro anonimato (stiamo parlando di una percentuale davvero minima di cittadini, capaci di usare tecniche più o meno sofisticate per “nascondere” la propria identità”). I media tradizionali spesso parlano di troll anonimi. Ma in realtà stanno parlando di persone che usano un nickname.
Ognuno di noi quando si collega da un computer o da mobile usa un IP (un indirizzo) che permette facilmente di individuare da quale device ci si è collegati e quindi anche al proprietario. Certo in una indagine per una ipotesi di reato si dovrà anche dimostrare che quel device appartenente a X sia stato poi usato proprio da X per commettere il reato su cui si indaga. Vale lo stesso però se decidiamo di rendere obbligatoria la registrazione con un documento di identità. Bisognerà dimostrare che quell’account è stato usato proprio da quella persona nel momento in cui è stato compiuto un reato o un illecito civile (diffamazione, insulto…). E quindi la soluzione Marattin non è neanche da questo punto di vista una soluzione. La procedura rimane esattamente la stessa.
Come spiegato benissimo da Massimo Canducci su TechEconomy: “È tecnicamente possibile risalire fino al dispositivo utilizzato e non alla persona che lo ha utilizzato e che, in possesso di adeguate credenziali, potrebbe utilizzare tranquillamente l’account di qualcun altro. Questa situazione si ripresenterebbe identica anche in caso di account social per i quali in qualche modo l’identità del proprietario sia certificata, consentendo nella pratica l’utilizzo di un account social anche da parte di chi non ne sia il legittimo proprietario ed anche in presenza di identità certificate. C’è poi il “piccolissimo dettaglio” dell’Art. 27 della Costituzione che dice che “La responsabilità penale è personale”. Se non c’è modo di sapere chi sta usando un certo account social per compiere una determinata azione chi puniremo?”
Questo significa comunque che ognuno di noi è potenzialmente rintracciabile e identificabile. E infatti a differenza di quello che Marattin vorrebbe far credere, nel web non esiste una zona franca. Non c’è l’anarchia. Ma vigono le stesse leggi che vigono offline. Se commetti un reato, ci sarà una indagine per stabilire le responsabilità e poi un eventuale processo. In caso di colpevolezza le leggi si applicano anche per i comportamenti online. Diffamare o insultare online è considerato addirittura una circostanza aggravante.
Quindi abolire l’anonimato, per quella piccolissima percentuale di persone che è capace di avvalersene, non ha nessun senso. Nè alcuna particolare efficacia. Tra l’altro anche chi usa tecniche sofisticatissime per mascherare la propria identità troverà sempre qualcuno più bravo di lui capace di individuarlo. Per inciso ormai le piattaforme chiedono numeri telefono verificati quindi non basta usare software di anonimizzazione, ma è necessario anche usare un sim non identificabile e avere la capacità di far sopravvivere l’account così creato ai continui controlli di Facebook e Twitter, soprattutto quando si accorgono di mille connessioni diverse o completamente anomale.
Le persone odiano, insultano, aggrediscono tranquillamente con il proprio nome e cognome. Lo sa bene l’onorevole Marattin, a cui è capitato sui social di dare delle miserabili teste di cazzo a suoi avversari politici, o di rivolgersi così a Nichi Vendola: “Nichi, per usare il tuo linguaggio, ma va’ a elargire prosaicamente il tuo orifizio anale in maniera totale e indiscriminata”.
La signora che alla notizia dei naufraghi morti in mare commenta “cibo per i pesci”, lo fa con il proprio nome e cognome (e tra l’altro non commette nessun reato). E così chi augura morte e stupri. Ricerche e studi hanno dimostrato che la correlazione anonimato-discorsi di odio non è affatto così scontata. Anzi le persone esibiscono in modo trionfante espressioni e posizioni odiose, vogliono che gli sia riconosciuto il coraggio di esprimersi in quel modo, sono in cerca narcisisticamente di like, condivisioni, approvazione. Le idee che esprimono non sono qualcosa di cui si vergognano, ma, al contrario, qualcosa di cui vanno orgogliosi. Il più noto e potente odiatore e spacciatore di bufale sui social si chiama Donald Trump, è il presidente degli Stati Uniti d’America. Ma noi stiamo pensando di spezzare le reni a Fragolina89, chiedendo la sua carta di identità. Anche questo è poco onesto da parte di politici come Marattin: non inquadrare il fenomeno nella sua complessità e far credere ai cittadini che se aboliamo l’anonimato, avremmo imposto per legge gentilezza e rispetto, quando i più pericolosi odiatori online spesso sono proprio i politici, con tutto il potere che hanno di intimidire i cittadini e di ingannare e fuorviare l’opinione pubblica. Potere che mai e poi mai potrebbe avere un cittadino comune. Non dimentichiamo l’uso spudorato e cinico che da questo punto di vista fa Matteo Salvini dei social.
L’abolizione dell’anonimato dunque non sarebbe un deterrente, eliminarlo non avrebbe alcun effetto rispetto all’obiettivo che Marattin dice di porsi. Qui mi tocca una piccola precisazione: in un confronto televisivo a Piazza Pulita che ho avuto con Marattin, l’onorevole candidamente ha ammesso che a lui non interessa se le persone online odiano, insultano. Interessa che siano identificabili con nome e cognome. Ribadendo ancora una volta che già oggi la maggior parte odia a volto scoperto, par di capire che a Marattin non interessa il tema come questione sociale e culturale, ma gli interessa solo di poter punire eventualmente queste persone. Non è proprio una bella ammissione da parte di un politico.
L’anonimato non è una concessione ai navigatori online, ma nasce ancora prima dell’avvento di Internet. Ne hanno fatto uso nella storia scrittori, poeti, dissidenti, attivisti.
E fa parte della cultura digitale da sempre. L’anonimato serve a proteggere, per quel che può, attivisti per i diritti umani, minoranze, gruppi più deboli ed esposti a discriminazione e ritorsioni. È un valore politico e culturale. Far credere ai cittadini che eliminandolo saremo tutti più sicuri è un inganno. Far passare il messaggio che è cosa buona e giusta avere uno Stato che ci controlla massicciamente e in maniera sempre più intrusiva è spaventoso. Il deleterio “Intercettateci tutti” insomma. Invece di educare i cittadini alla protezione della loro privacy, li stiamo spingendo a considerare normale uno Stato che possa controllare continuamente cosa dicono, fanno, pensano. Purtroppo, in questi giorni di confronti e discussioni sui social, di commenti come questi ne ho incontrati tantissimi: “Che male c’è? Io non ho nulla da temere. D’altra parte diamo già la nostra carta di identità all’aeroporto, o quando compriamo una Sim…”. Come se all’aeroporto svolgessimo la nostra vita ed esprimessimo i nostri punti di vista e le nostre opinioni. O come se dando i nostri documenti per acquistare una Sim venissimo continuamente sorvegliati e ascoltati dallo Stato o da un privato. In quel caso appunto se il magistrato ravvede la necessità di mettere sotto controllo le nostre conversazioni avrà bisogno di una autorizzazione da parte del giudice. Dunque anche da questo punto di vista la proposta risulta un danno culturale incalcolabile.
Vale la pena ricordare le parole di Stefano Rodotà quando appunto i cittadini in piazza manifestavano contro la legge che voleva limitare le intercettazioni (in quel caso per difendere il potere, paradossalmente proprio invocando la tutela della privacy), usando appunto l’infausto slogan “Intercettateci tutti”.
“Quando ho visto in piazza Montecitorio un cartello che proclamava Non ho nulla da nascondere. Intercettatemi, sono stato preso da un vero scoramento… Dico per l’ennesima volta che l’“uomo di vetro” è immagine nazista, è l’argomento con il quale tutti i regimi totalitari vogliono impadronirsi della vita delle persone. Se non avete nulla da nascondere, non avete nulla da temere. E così, appena qualcuno vuole rivendicare un brandello di intimità, diventa un “cattivo cittadino” sul quale lo Stato autoritario esercita le sue vendette”.
Negli Stati Uniti la Corte Suprema ha definito l’anonimato “uno scudo dalla tirannia della maggioranza esemplifica in tal modo lo scopo alla base del Bill of Rights e del Primo Emendamento, in particolare: proteggere gli individui impopolari dalle rappresaglie e le loro idee dalla soppressione, per mano di una società intollerante.”
In Europa il diritto all’anonimato si lega al diritto alla privacy inteso come tutela della dignità dell’uomo. Art. 8 e 10 della Convenzione dei diritti dell’uomo. La protezione della privacy e della libertà di espressione, infatti, non sarebbero possibili se non tutelando l’anonimato.
ONU, istituzioni per i diritti umani e Parlamento europeo hanno dato in questi anni indicazioni precise ai governi: i regolatori / legislatori si dovrebbero preoccupare di estendere diritti, non di restringerli.
L’idea di introdurre obblighi generalizzati di identificazione per l’uso dei servizi online è già stata bollata nel 2013, dal relatore speciale per la libertà di espressione per l’ONU dell’epoca Frank La Rue, come liberticida e incompatibile con i diritti fondamentali dell’uomo. “Gli Stati dovrebbero astenersi dal forzare l’identificazione degli utenti come condizione preliminare per l’accesso alle comunicazioni, compresi i servizi online, i cybercafé o la telefonia mobile ”.
Lo stesso documento, questa volta a firma David Kaye, aggiornato al 2015, afferma che i governi si dovrebbero impegnare a garantire e proteggere l’anonimato e la crittografia. Le tecnologie digitali hanno introdotto su larga scala sorveglianza e abusi della privacy, gli utenti devono affrontare tutta una serie di pericoli online e quindi il nuovo relatore speciale dell’ONU per la libertà di espressione ha indicato nel rafforzamento di anonimato e crittografia uno scudo per difendere i cittadini, gli utenti, una zona di privacy per proteggere le opinioni e le idee. I governi dovrebbero evitare misure che in qualche modo indeboliscono la sicurezza dei cittadini online. “La crittografia e l’anonimato consentono alle persone di esercitare i loro diritti alla libertà di opinione e di espressione nell’era digitale e, come tali, meritano una forte protezione ”.
La Risoluzione del Parlamento europeo dell’8 settembre 2015 su “Diritti umani e tecnologia: impatto dei sistemi di sorveglianza e di individuazione delle intrusioni sui diritti umani nei paesi terzi” all’Art. 49 “invita esplicitamente a promuovere strumenti che consentono l’utilizzo anonimo e/o pseudonimo di Internet e contesta la visione unilaterale secondo cui tali strumenti avrebbero come unica funzione quella di consentire le attività criminali, e non di dare maggiore potere agli attivisti dei diritti umani all’interno e all’esterno dell’Ue”.
In Italia non esiste un diritto all’anonimato. In genere l’anonimato è un bene strumentale di secondo livello, cioè viene tutelato nel momento in cui rendere pubblica l’identità può determinare discriminazioni o comunque problemi alla propria sicurezza (vedi il caso dei whistleblower, coloro cioè che fischiano il fallo denunciando anonimamente reati o irregolarità all’interno della propria azienda pubblica o privata).
Nel 2015 però è stata approvata alla Camera dei deputati all’unanimità, nessun voto contrario, la Dichiarazione dei diritti di Internet – nata da una commissione di studio mista, parlamentari ed esperti guidata da quel gigante del pensiero che era Stefano Rodotà – che all’articolo 10 sancisce la protezione dell’anonimato: “Ogni persona può accedere alla Rete e comunicare elettronicamente usando strumenti anche di natura tecnica che proteggano l’anonimato ed evitino la raccolta di dati personali, in particolare per esercitare le libertà civili e politiche senza subire discriminazioni o censure”.
In Italia qualche anno fa ci fu un disegno di legge contro l’anonimato (non era il primo, c’è uno storico di proposte di leggi simili che in questi anni sono morte sul nascere, la stessa fine che potrebbe fare anche l’annuncio di Marattin), e il Garante della privacy, Antonello Soro, già allora si espresse contrariamente: la raccolta di una quantità di dati enorme (la schedatura) è in contrasto col principio di proporzionalità (raccogli i dati di tutti per scovare un potenziale criminale).
Cosa che ha ribadito anche in questi giorni rispetto all’iniziativa del deputato di Italia Viva: “Pensare di imbrigliare infrastrutture mondiali con una leggina nazionale è velleitario, consegnare l’intera anagrafica a privati è pericoloso”.
Va ricordato anche come ha scritto Philip Di Salvo su Wired nel 2015 che: “La Data Protection Authority tedesca ha stabilito che la ‘real name policy’ di Facebook è illegale in Germania. Per effetto della decisione dell’ente di Amburgo, Menlo Park non potrà più costringere gli utenti tedeschi a essere presenti sul social network esclusivamente con il loro nome anagrafico, dato che l’imposizione viola il diritto alla privacy degli iscritti e quello di usare uno pseudonimo. Inoltre, ha stabilito ancora l’Autorità, Facebook non può richiedere l’invio dei documenti per la verifica dell’identità dei profili, né cambiare arbitrariamente i nomi utente sulla base di quanto appare su carte d’identità, passaporti o altri documenti ufficiali”.
Chi si occupa a tempo pieno di diritti umani nel mondo ritiene quindi fondamentale che sia garantita una protezione totale al diritto di essere anonimi e di poter comunicare in modo crittografato, in quanto si tratta di caratteristiche che consentono alle persone di esercitare i loro diritti alla libertà di opinione ed espressione nell’era digitale.
C’è poi un grossissimo problema con l’idea di Marattin su come tutto ciò dovrebbe avvenire. Cosa che da un lato svela la cultura securitaria del deputato e dall’altro la sua impreparazione su temi così complessi e delicati proprio per le implicazioni che potrebbero avere sui diritti e la libertà dei cittadini.
Il deputato dice in una intervista all’Agi che “la pacchia è finita”. Non preoccupandosi minimamente di usare lo stesso linguaggio di Matteo Salvini, applicando quella espressione così brutale (e populista) in riferimento ai porti e all’immigrazione, alle nostre vite digitali. “La pacchia è finita”, dice, immaginando la schedatura di 30milioni di italiani. E chi dovrebbe occuparsene? Un ente terzo certificatore. Non prendendo minimamente in considerazione la pericolosità di una simile scelta, per non parlare dei costi esorbitanti di una simile operazione (il pericolo di data breach, ossia di una violazione dei dati, è evidente), l’inapplicabilità della stessa visto che la Rete è globale (a meno che Marattin non intenda alzare cyber wall come la Cina e dare vita a una Rete Internet Sovranista), ma soprattutto per quanto mi riguarda la deriva autoritaria che porta con sé una simile proposta (ah se lo avesse proposto Salvini non oso nemmeno immaginare cosa si sarebbe scatenato). Giovanni Ziccardi ha spiegato perfettamente perché l’idea di “schedare” tutti i cittadini che abbiano un profilo social pone problemi tecnici, giuridici e politici insormontabili.
Quando vado in piazza manifestare, io so che potrò esprimere liberamente il mio dissenso e lo Stato o il Governo non avranno a disposizione un database di persone identificate e schedate preventivamente. Nel caso di una schedatura di massa come quella immaginata da Marattin, le persone potrebbero autocensurarsi, i whistleblower rinuncerebbero alle loro denunce, per la paura di eventuali ritorsioni. Perché lo Stato sa chi dice cosa e potrebbe usarlo per reprime il dissenso. Oggi al governo ci sono i “buoni”, domani chi sa. Il legislatore ha il dovere di immaginare gli scenari peggiori e tutelare da possibili abusi. Nella mani sbagliate che fine potrebbe fare questa raccolta di massa di identità? Quindi eliminare l’anonimato, costringere i cittadini ad associare ai propri account social la propria carta di identità verificata e gestita da un ente terzo non solo risulterebbe inutile per contrastare l’odio ma metterebbe a rischio gli stessi cittadini. I più onesti potremmo dire. Visto che chi ha intenzioni malevole e vuole commettere reati online usando l’anonimato non si farà certo fermare da una simile iniziativa.
“Immaginate di voler partecipare a un comizio in piazza. Immaginate che, per una legge dello Stato, quella piazza sia presidiata da varchi ai quali, per entrare, è necessario fornire un documento di identità a una security privata. Cosa pensereste di quello Stato? Ecco, questa è la proposta Marattin. Che non ha nulla a che vedere con il dovere di non andare in piazza con il volto coperto (cioè profili falsi e/o anonimi) e non ha nulla a che vedere con il diritto dovere della polizia di identificare chi si rendesse responsabile di atti illegali (cioè le leggi esistenti). Tra essere identificabili e essere schedati per legge c’è una differenza enorme, che riguarda i diritti inalienabili di ciascuno di noi e i pericoli che leggi sbagliate possono creare quando finiscono in mano a governi sbagliati.” (Andrea Iannuzzi)
La mentalità, la cultura da cui nasce una simile idea è securitaria, tipica di regimi autoritari. Dove proprio in nome della sicurezza dei cittadini la loro vita viene sottoposta a un controllo massiccio. Seguendo la logica di Marattin, siccome i cittadini sono potenziali criminali, potrebbe funzionare da deterrente obbligare tutti a installare un microchip sotto pelle. Con il vantaggio aggiuntivo che se commettono un reato, possiamo identificarli subito. Ma la democrazia non usa scorciatoie. La democrazia è faticosa ricerca di soluzioni nel rispetto dei diritti e delle libertà dei cittadini.
Oggi chi commette un reato online è identificale e rintracciabile, come abbiamo detto. Siamo punibili per reati come istigazione all’odio, diffamazione, o per illeciti civili come l’insulto. Anche se questo non vuol dire che siamo facilmente rintracciabili. Infatti occorre che l’azienda che si occupa dell’instradamento della comunicazione (access provider) fornisca i dati, che incrociati con quelli dell’hosting provider, consentono di arrivare a un dispositivo. Per evitare che ci siano abusi, è previsto che tale procedura sia accessibile solo a seguito di un ordine di un magistrato. Rendere identificabile una persona in maniera immediata, perché “schedata” all’ingresso, è completamente differente. Lo fanno in Cina e in Russia.
C’è poi un altro argomento che usa Marattin a supporto della sua idea: il deputato fa una comparazione senza senso fra stampa e libertà di espressione dei cittadini online. Anche i cittadini secondo Marattin dovrebbero essere sottoposti alla legge sulla stampa. Dove l’anonimato è protetto ma i giornalisti conoscono il nome e cognome della loro fonte. Beh certo ma i giornalisti sono tenuti appunto a proteggere quell’anonimato e a non rivelarlo nemmeno in caso di indagini giudiziarie. Inoltre ci sono sentenze su sentenze della Cassazione che rigettano la comparazione stampa-web, fa impressione che l’onorevole non ne sia a conoscenza e proponga ancora una simile sciocchezza.
È un evidente errore di prospettiva. Una cosa è scrivere su un giornale, che per la caratteristiche intrinseche deve (per legge) essere sempre riferibile a qualcuno (direttore responsabile), ben altro è l’esercizio del fondamentale diritto di espressione (ex. Art. 21 Cost., vedi Cass. 16236/2010) che si divide in passivo (diritto di ricevere informazioni, perché solo il cittadino correttamente informato può esercitare la sovranità popolare, art. 2 Cost) e attivo (diritto a esprimere la propria opinione liberamente e senza restrizioni). Su un giornale un cittadino semplicemente non può esercitare la componente attiva della libertà di espressione. Un cittadino non può entrare negli studi del Tg1 e chiedere di dire la sua. Internet è l’unico luogo dove finalmente si compie l’attuazione del diritto alla libertà di espressione. Si tratta di due situazioni incomparabili.
La normativa sulla stampa nasce dall’esigenza di fornire un sistema di individuazione di soggetti responsabili, i criteri per l’individuazione di un luogo certo per stabilire la competenza territoriale di un giudice in caso di reati, e infine regolare il sistema dei finanziamenti pubblici. Se vogliamo estendere gli obblighi sulla stampa alle opinioni in Rete sui social, allora dovremmo estendere anche il finanziamento pubblico ai singoli cittadini che scrivono su Internet. Il sistema è un pacchetto unico. Invece la Cassazione (sentenza 23230 del 13 giugno 2012 tra le altre) ha sempre detto che l’espressione di un’opinione online, non strutturata come un giornale, senza organizzazione imprenditoriale, non è soggetta alla norme sulla stampa.
E allora cosa fare? L’odio online non ha soluzioni. È come dire troviamo una soluzione per la pace nel mondo. Online si riversa la nostra umanità che è un mix sconcertante di bene e male. Quello che la politica può e deve fare è investire massicciamente in educazione, in educazione all’empatia, in educazione digitale, in alfabetizzazione mediatica. Bisogna poi accelerare le procedure di identificazione con le piattaforme, in caso di indagini della magistratura. La politica dovrebbe prevedere maggiori risorse per la magistratura e la polizia postale. A questa mia proposta durante la trasmissione Piazza Pulita, la risposta di Marattin è stata da vero aruffapopolo, ben conoscendo la sensibilità dei cittadini sulla questione soldi e sfruttandola in maniera disonesta e populista: “Eh sempre soldi, chiedete sempre soldi”. Come se poi mettere su una operazione che prevede un ente certificare terzo che dovrà gestire, verificare e proteggere l’identità di 30 milioni di cittadini non comportasse costi e investimenti notevoli.
La disinformazione
Prima di tutto bisogna domandarsi di cosa stiamo parlando esattamente. La disinformazione, come ben sa chi studia e se ne occupa da anni, è una bestia dai mille volti. Come scrivemmo tempo fa nella nostra guida alla disinformazione: facile dire fake news! Stiamo parlando di cattivo giornalismo (in buona o cattiva fede), di propaganda politica che inganna volutamente i cittadini, di istituzioni che diffondono informazione distorta per inquinare il dibattito pubblico.
Il problema, dice Marattin, è chi usa i social per manipolare l’opinione pubblica. Mi verrebbe da dire: cioè sostanzialmente i politici. In che modo abolire l’anonimato porterebbe i politici o attori maligni a smettere di manipolare l’opinione pubblica?
La disinformazione è qualcosa che vede media, governi e politici fra gli attori protagonisti. È disinformazione quella di Di Maio che accusa il Pd di essere il partito di Bibbiano che strappa i bambini alla famiglie per venderseli, è disinformazione quella di Salvini che parla di invasione e di piano di sostituzione etnica, è disinformazione quella di Renzi che dice di aver perso il referendum per colpa delle fake news (senza avere uno straccio di evidenza). È disinformazione quella di Confindustria che durante il dibattito sul referendum costituzionale, rilasciò dei dati prevedendo una vera e propria catastrofe in caso di vittoria del NO. Addirittura ci sarebbero stati 600mila poveri in più, senza mai spiegare il metodo di rilevazione di simili dati nonostante le nostre continue richieste di spiegare la correlazione fra vittoria del No (che significava sostanzialmente lasciare la Costituzione così com’è) e l’aumento della povertà. È disinformazione quella de Il Mattino quando inganna i propri lettori sull’assalto ai Caf per il reddito di cittadinanza, usando una foto che in realtà risale al 2010 e tagliando volutamente l’insegna delle Poste per spacciare la sede come quella dei Caf. È disinformazione l’articolo de La Stampa di domenica scorsa sui cittadini che usufruiscono del reddito di cittadinanza a Pomigliano d’Arco (la città natale di Luigi Di Maio), notizia corretta solo dopo 24 ore di pressione e critiche da parte dei lettori sui social. Cosa è la sistematica diffusione di notizie distorte sui migranti (prontamente rilanciate da politici di estrema destra) da parte di Libero e Il Giornale?
Una bugia ci ha portati alla guerra in Iraq nel 2003. Una propaganda governativa basata sull’affermazione che Saddam Hussein fosse in possesso di armi di distruzioni di massa ci ha convinto ha portato al massacro di un milione di civili. Una propaganda appoggiata da tutti i media mainstream. Il Presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, ha all’attivo (fino a ottobre 2019) circa 13.435 affermazioni false o fuorvianti in 993 giorni, come documentato dal Washington Post. Ed è lui uno dei più potente amplificatori di account falsi o gruppi di estrema destra, razzisti e suprematisti e neonazisti.
L’ultimo rapporto 2019 sulla disinformazione attraverso i social media, firmato dall’Università di Oxford, ha trovato evidenze di attività di manipolazione da parte di agenzie governative o di partiti politici in 70 paesi. La maggior parte della propaganda è creata da persone vere e proprie: l’87% dei paesi usa account umani, non solo bot. Alcuni paesi assumono studenti o gruppi di giovani per la propaganda computazionale, inclusi Russia e Israele. L’aumento riscontrato di questa tipologia di propaganda è dovuto all’incremento dei paesi che vedono i social media come strumento di potere geopolitico. La novità di quest’anno è che è stata scoperta una nuova categoria di account usati per la manipolazione: oltre ad account umani, account bot e account “cyborg”, il 7% dei paesi ha violato o rubato account reali per utilizzarli nelle loro campagne. Il Guatemala, l’Iran, la Corea del Nord, la Russia e l’Uzbekistan erano tra i paesi che utilizzavano account hackerati o rubati. Più della metà dei paesi dove è stato provato il ricorso alla propaganda politica – 45 su 70 – ha utilizzato queste tattiche durante le elezioni. Vi sono politici con follower falsi, annunci mirati che utilizzano media manipolati e micro-targeting. Che tipo di informazioni utilizzano queste campagne? L’attacco all’opposizione e agli avversari politici è il più diffuso, seguito dalla diffusione della propaganda pro-governo o pro-partito e dalla diffusione di informazioni volte a creare divisione. Mentre quasi il 75% ha utilizzato tattiche come meme, fake news e video, ci sono anche tipi di manipolazione più subdoli e difficili da intercettare. Circa il 68% ha utilizzato troll sponsorizzati dallo Stato per attaccare avversari, come giornalisti e attivisti. Molti hanno anche utilizzato gli strumenti di segnalazione sui social per censurare post, sperando nel processo automatizzato di rimozione di contenuti anche se questi non violavano le regole della piattaforma. Un altro 73% dei paesi ha fatto uso massiccio di hashtag per diffondere il più possibile un messaggio. La maggior parte di queste attività si svolge su Facebook, ma non ne sono immuni Instagram, YouTube e WhatsApp.
Gli Stati Uniti sono classificati tra i paesi “ad alta capacità di cyber-eserciti”, il che indica un’operazione a tempo pieno con un grande budget incentrato sulla propaganda sia interna che straniera. Gli USA usano disinformazione, dati e amplificazione artificiale del contenuto da parte di account umani, bot e cyborg (o misti umano-bot). Lo studio ha anche offerto evidenze e prove che gli Stati Uniti hanno usato tutte e cinque le categorie di messaggi legati alle campagne di propaganda e disinformazione: contenuti a supporto della propaganda di governo o del partito, attaccare e diffamare l’opposizione e gli avversari, distrarre, confondere e spostare l’attenzione e le critiche da questioni importanti, incentivare divisioni e polarizzazione e reprimere la partecipazione attraverso attacchi e aggressioni personali.
Combattere la disinformazione online è come il gioco del whack-a-mole: colpisci la talpa, ne colpisci una e ne sbuca subito dopo un’altra da qualche altra parte. La capacità delle tattiche di disinformazione e manipolazione di adattarsi e superare gli ostacoli posti di volta in volta dalle piattaforme è sbalorditiva. Ultimamente Facebook ha annunciato di aver fermato una campagna di disinformazione della Russia in Africa, dove venivano usati account e pagine locali e lecite, aggirando facilmente così i sospetti che si trattasse di account aperti in Russia. L’Europa da tempo ha adottato una serie di iniziative che comprendono anche la collaborazione con le piattaforme per contrastare questo tipo di manipolazione e propaganda online. Con tutte le difficoltà e le criticità che possiamo immaginare. Tra queste misure non è prevista, in ogni caso, la schedatura di milioni di cittadini europei.
Ci piacerebbe capire come, secondo Marattin, schedare 30 milioni di italiani dovrebbe contrastare o “risolvere” tutto questo.
Due giorni fa Il Messaggero ha pubblicato un articolo che riprende più o meno tutte le argomentazioni fallaci del deputato di Italia Viva. E si lascia andare a una espressione davvero violenta, definendo, senza però fare nomi e cognomi, coloro che hanno criticato nel merito le idee di Marattin e che si sono spesi per giorni per spiegare le ragioni profonde di quelle critiche, talebani di Internet (un linguaggio non proprio zen diciamo). Articolo rilanciato prontamente da Marattin che sottolinea come particolarmente bella proprio quella espressione, precisando i talebani del profitto di Internet.
Bello l’editoriale di @francescogrillo su @ilmessaggeroit sulla proposta di vietare l’anonimato in rete. Bella anche la definizione dei “talebani di Internet”. In molti sono, più che altro, talebani del fatturato di internet (che diminuirebbe senza anonimato!). https://t.co/257bFRRc5i
— Luigi Marattin (@marattin) November 4, 2019
Ancora una volta dimostrando ignoranza su questi temi, il deputato afferma che il modello di business delle piattaforma sfrutterebbe appunto l’anonimato. E che togliere l’anonimato significa danneggiare i profitti di queste aziende. Ma se il business delle piattaforme è basato proprio sul suo opposto e cioè sulla profilazione dei dati degli utenti!
Anche specificare “del fatturato” è completamente senza senso: i big della rete fanno soldi grazie a profilazioni e tracciamento ubiquo degli utenti. Al massimo guadagnerebbero di più, conoscendo nome e cognome degli stessi.
— Giuseppe Profiti (@GProfiti) November 4, 2019
Arianna Ciccone
6 Novembre 2019 21
FONTE: https://www.valigiablu.it/odio-disinformazione-anonimato/