EDITORIALE – Chiesa, migranti e noi

By 14 Dicembre 2019Migranti e povertà

Ieri, confessando una persona, mi ha detto: “Io sono molto arrabbiata con la Chiesa perché dice che dobbiamo accogliere tutti i migranti!”

Questa convinzione, molto probabilmente presente in tanti, mi induce a una breve riflessione sul fenomeno migratorio, argomento complesso e tortuoso, a volte analizzato con pregiudizi che originano esasperazioni. Per oltrepassare la logica dell’emotivismo e del qualunquismo proporrò unicamente alcuni input, lasciando al lettore le conclusioni.

La Sacra Scrittura rammenta il dovere dell’accoglienza dello straniero. «Il Signore vostro Dio, vi chiede soltanto questo: di rispettare lo straniero, di amarlo e di onorarlo con tutto il cuore e con tutta l’anima (…). Amate questi stranieri, perché anche voi foste stranieri quando eravate in Egitto» (Dt. 5,10.19). Un invariato richiamo è presente nel vangelo di Matteo, quando il Signore Gesù illustra la grandiosa scena del giudizio finale: «Ero forestiero e mi avete ospitato» (Mt. 25,35). Anche san Paolo esorta: «Non dimenticate l’ospitalità, poiché alcuni, praticandola, hanno accolto angeli senza saperlo» (Eb. 13,2).

Il Magistero della Chiesa cattolica analizza il fenomeno emigratorio nel “Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa” e nel “Catechismo della Chiesa Cattolica: «Le nazioni più ricche sono tenute ad accogliere, nella misura del possibile, lo straniero alla ricerca della sicurezza e delle risorse necessarie alla vita, che non gli è possibile trovare nel proprio Paese di origine. I pubblici poteri avranno cura che venga rispettato il diritto naturale che pone l’ospite sotto la protezione di coloro che lo accolgono. Le autorità politiche, in vista del bene comune, di cui sono responsabili possono subordinare l’esercizio del diritto di immigrazione a diverse condizioni giuridiche, in particolare al rispetto dei doveri dei migranti nei confronti del Paese che li accoglie (…)» (n.2241).

Dunque, nella prospettiva biblica, il comportamento da assumere è evidente: accogliere lo straniero. Il Magistero, poi, consiglia le modalità: operare con la comunità civile per l’ integrazione, condividere e diffondere i valori della reciprocità, ma contemporaneamente e realisticamente «accogliere nella misura del possibile». Questo significa che dobbiamo porci la domanda riguardante il vero bene per l’altro, evitando di trasformare il nobile concetto di solidarietà in semplice buonismo. Per comprenderci propongo alcuni interrogativi: accogliere gli stranieri, essendo noi come Stato sprovvisti di progettualità futura è sufficiente? Un’ospitalità indiscriminata offrirà loro un’adeguata qualità di vita e un dignitoso futuro? Ma, nel nostro Paese, questi quesiti, fino ad ora sono stati trascurati. E questo è un male.

Il primo consiglio è quello di superare uno stereotipo diffuso e generalizzato: ritenere lo straniero pericoloso. Scriveva don Virgilio Colmegna, direttore della Casa della Carità di Milano: «La maggioranza degli immigrati portano storie di vita radicalmente diverse dall’immagine dello straniero irregolare, clandestino e pericoloso. L’immagine che emerge dai nostri incontri è di persone con grande dignità, disposte a far di tutto – anche a stare in silenzio e in condizioni di sfruttamento – pur di lavorare, di vivere serenamente tra noi ed aiutare i famigliari qui o nella patria che hanno lasciato. A darci questa immagine positiva sono state le categorie più deboli della città, ad esempio, gli anziani soli e i disabili che hanno presentato domanda di regolarizzazione per i loro collaboratori domestici e ci hanno raccontato vicende di commovente dedizione». Dunque, questi stranieri, si sono totalmente inseriti nel nostro contesto societario e sono essenziali per il presente e per il futuro, svolgendo le mansioni più umili, spesso rifiutate dagli italiani, come pure saranno basilari per la nostra economia a seguito della persistente crisi demografica. A loro, non è sufficiente affermare vieni, serve dirgli entra nella nostra società con il tuo contributo, così troverai posto oltre che nella nostra casa anche nel nostro affetto.

Accanto a questi troviamo gli immigrati costretti dalla clandestinità, all’accattonaggio. La clandestinità è uno stato di debolezza del soggetto che potrebbe essere captato dalla criminalità organizzata trasformandosi in vittima-complice di più reati. Perciò è opportuno determinare la «misura del possibile», cioè «regolare il flusso migratorio nella visione del bene comune secondo criteri di equità ed equilibrio» affinché «gli inserimenti avvengano con le garanzie richieste dalla dignità della persona umana» (Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa n. 298). Dunque, è obbligo dello Stato regolare il flusso migratorio in base alle reali possibilità di accoglienza; offrire sempre una prima ospitalità, ma contemporaneamente, snellire le procedure burocratiche per il rimpatrio di chi non ha il diritto di rimanere.

L’evento migratorio impone anche il confronto culturale e religioso: «L’immigrato è tenuto a rispettare con riconoscenza il patrimonio materiale e spirituale del Paese che lo ospita, ad obbedire alle sue leggi, a contribuire ai suoi oneri» (Catechismo della Chiesa Cattolica 2241). E’ irrinunciabile educare lo straniero alla socialità, ai valori fondanti la nostra cultura e le nostre tradizioni, al rispetto delle leggi, alla conoscenza dei doveri e dei diritti, ribadendo con fermezza le regole basilari di ogni convivenza. La mancanza di volontà e l’incapacità nel difendere la nostra identità, rischia di farci ricevere in negativo quello che non sappiamo o non vogliamo offrire in positivo. Dunque, un’accoglienza, non a senso unico! Per favorire l’integrazione dovremmo, a mio giudizio, agevolare chi condivide il nostro tessuto culturale, spirituale e sociale, come alcuni anni fa propose il cardinale G. Biffi. «In vista di una pacifica e fruttuosa convivenza, se non di una possibile e auspicabile integrazione, le condizioni di partenza dei nuovi arrivati non sono ugualmente propizie. E le autorità civili non dovrebbero trascurare questo dato della questione» (La città di San Petronio nel terzo millennio, EDB, 2000, 43).

Al cristiano, inoltre, è chiesto di proporsi come esempio per coloro che professano la nostra religione, facilitandoli anche nelle pratiche cultuali. Agli altri, con rispetto ed umiltà, è doveroso annunciare il Vangelo, illustrando il significato del nostro appartenere al Signore Gesù, unico vero salvatore dell’umanità. Ma per evangelizzare, ammoniva il cardinale Biffi, i cristiani «devono crescere sempre più nella gioiosa intelligenza degli immensi tesori di verità, di sapienza, di consolante speranza che hanno la fortuna di possedere: è un’effusione di luce divina, assolutamente inconfrontabile con i pur preziosi barlumi offerti dalle varie religioni e dall’Islam; e noi siamo chiamati a renderne partecipi appassionatamente e instancabilmente tutti i figli di Adamo» (La città di San Petronio nel terzo millennio, op. cit., 40).

Concludo con un pensiero che Papa Francesco ha manifestato ai giornalisti il 21 giugno 2018 nel viaggio di ritorno da Ginevra e che ben riassume quello che tentato di affermare: «Ho parlato tanto dei rifugiati e i criteri sono in quello che ho detto: accogliere, accompagnare, sistemare, integrare. Sono criteri per tutti i rifugiati. Poi ho detto che ogni Paese deve fare ciò con la virtù del governo che è la prudenza, perché un Paese deve accogliere tanti quanti può e quanti può integrare, educare, dare lavoro. Questo è il piano tranquillo, sereno sui rifugiati». Ma con un’aggiunta: i Paesi industrializzati devono assumere strategie di crescita e di sviluppo da attuare in loco, affinché in futuro sia garantito alle popolazioni dei Paesi del Terzo Mondo il diritto a non emigrare, evitando loro il dramma di intraprendere pericolosi “viaggi della speranza”.

 

Don Gian Maria Comolli